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sabato 11 aprile 2020

The Ruins of Beverast/Mourning Beloveth - Don't Walk On The Mass Graves

#PER CHI AMA: Black/Doom
In attesa di ingannare il tempo affinchè i rispettivi nuovi lavori vedano la luce, ecco che i The Ruins of Beverast e i Mourning Beloveth, si ritrovano in uno split EP rilasciato in formato 10" per regalarci venti minuti in compagnia di due realtà davvero interessanti dell'etichetta tedesca Vàn Records. Ad aprire le danze di questo 'Don't Walk On The Mass Graves', ci pensa la chitarra acustica degli irlandesi Mourning Beloveth con "I Saw a Dying Child in Your Arms", quasi dieci minuti di sonorità evocative che chiamano immediatamente ed inequivocabilmente in causa i Candlemass con quel cantato dominante e pulito del frontman Frank Brennan, che offre la sua splendida voce ad un delicato supporto ritmico in quella che sembra a tutti gli effetti una ballad. Il tremolo picking a metà brano, oltre a donare una forte componente malinconica, sembra quasi prepararci ad un cambio di registro nella seconda metà del pezzo. La song sembra crescere in intensità ed elettricità, non fosse altro che fa la sua comparsa anche il growling di Darren Moore nonostante la componente emotiva si mantenga comunque in quell'ambito di malessere e depressione tanto caro al quintetto di Athy. A seguire ecco i teutonici The Ruins of Beverast con il pezzo "Silhouettes Of Death's Grace" e la loro consueta amalgama di suoni spettrali che da sempre contraddistinguono la one-man-band capitanata da Alexander Von Meilenwald. La song è lenta e avvolta da un'insana ed angosciante atmosfera (forte anche di sovraincisioni di voci e dialoghi), acuita poi dallo screaming malefico del mastermind, e che vede cambiare registro solamente a 3/4 di brano, in una discordanza sonora che riuscirà a prendere il sopravvento prima dell'epilogo affidato ad una disturbante melodia che evoca un che dei Blut Aus Nord più ispirati, il tutto perennemente in combinazione con il suicidal black doom degli svedesi Shining. Insomma, che ne dite della proposta delle due band? A me piace parecchio. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 ottobre 2016

Fyrnask - Fórn

#PER CHI AMA: Cascadian Black, Emperor, Deathspell Omega, Agalloch
La profondità degli abissi è pronta ad inglobare voi tutti. I Fyrnask sono tornati con quello che è il loro terzo album, quello dell'attesa consacrazione, il primo per la Ván Records, dopo gli esordi per la Temple of Torturous. 'Fórn' è il nuovo mostro a sette teste partorito dalla mente di Fyrnd, colui che si cela dietro al combo di Bonn (ora una band a tutti gli effetti, dopo gli esordi come one-man-band), pronto a tracciare il proprio sentiero, grazie alla peculiare forma di malatissimo e roboante black metal che essi propongono. Escludendo l'intro acustica di "Forbænir", la malvagità dei nostri è certificata dal malefico sound di "Draugr", che nei suoi quasi otto minuti, ha modo di assemblare il black più atmosferico di scuola norvegese con le disarmonie della scuola francese (Deathspell Omega e Blut Aus Nord), non dimenticando citazioni che chiamano in causa anche la furia claustrofobica degli Altar of Plagues e un che del black metal cascadiano d'oltreoceano. Signori, questo cd si candida ad essere uno dei top album nella scena black di questo 2016, che con la violenza di "Niðrdráttr", spinge per affermare la superiorità dei Fyrnask in quest'ambito musicale. "Vi Er Dømt" risuona come un rito sciamanico, atto a regalare al disco anche una certa ritualità di fondo che arricchisce, in termini contenutistici, la proposta dell'ensemble della Renania. Dopo questa pausa rumoristica, si riprende con "Agnis Offer", una song davvero strana, inedita per la band e per questo anche più difficile da inquadrare. I suoni non sono infatti quelli canonici dato che l'approccio della band verge verso una certa solennità di fondo che evoca addirittura gli Urfaust. Ancora un intermezzo ritual e poi il vuoto viene colmato dalla ferocia insana di "Blotàn", pezzo pirotecnico e anche il mio preferito, che alterna epiche sfuriate black a schizofrenici mid-tempos, con la voce di Fyrnd che sbraita invasata per tutti i suoi sei minuti. Un altro rito proferito da una litanica voce, scandita dal suono di una campana, ed eccoci approdare a "Kenoma", un episodio nebuloso per la discografia della band, che ha avuto l'intelligenza di riarrangiare il proprio sound, progredendo verso un'evoluzione sonica che li ha portati in poco più di cinque anni, a divenire una delle più interessanti realtà dell'underground black. Le ultime menzioni di quest'oggi vanno allo splendido digipack e relativa cover, a cura dell'artista irlandese Glyn Smyth e infine per l'edizione in vinile, che include la bonus track "Vitran". Fyrnask, c'è da fidarsi. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 85

https://fyrnask.bandcamp.com/

domenica 9 ottobre 2016

Heretic - Underdogs of the Underworld

#PER CHI AMA: Punk Rock, Motorhead, Misfits
Il comeback discografico degli olandesi Heretic suona come il più classico "back in time", un vero e proprio tuffo nel passato alla ricerca delle radici del punk, per un disco che scomoda facili paragoni con band del calibro di Motorhead o Misfits. Il quartetto tulipano, che ha celebrato lo scorso anno il ventennale dalla propria fondazione, non è quindi quel che si dice una band di primo pelo, di erba i nostri ne hanno mangiata parecchia, creandosi la propria folta schiera di fan. Io, ahimè, non faccio parte di quella cerchia, però non posso far altro che alzare le mani, apprezzarne l'indubbia professionalità (e genuinità) e sottolineare la prova decorosa che i quattro punkers dei Paesi Bassi ci regalano: trentatré minuti di scorribande affidate a chitarra/basso e batteria, suonate in modo scarno e senza la ricerca di tanti orpelli artistici, su cui si stagliano le rozze vocals di Thomas Goat. Dimenticatevi pertanto synth, tastiere, violini o voci di gentili donzelle che popolano le ultime produzioni metal, 'Underdogs of the Underworld' offre il classico rock'n roll sporco e cattivo, suonato comunque con passione da una band che calca i palchi di tutto il mondo dal lontano 1995. E cosi il quinto album della loro lunga carriera, costellata peraltro da una miriade di split album, sciorina dieci tracce brevi (la durata complessiva è di 33 minuti) ed incazzate, di cui sottolineerei "Black Metal Punks" con il suo spirito thrashettone in un qualche modo vicino a 'Kill'em All' dei Metallica. Ed ancora perché non citare la melmosa "Hellbound Doomslut" o le schegge tipicamente punk di "Nuclear Pussy" e "Bitchfuck", vere e proprie arroganti citazioni di gente tipo Ramones o Sex Pistols. Un'ultima menzione va a "This Angel Bleeds Black", altro pugno nello stomaco, dotato di un peculiare groove. Insomma, se siete in vena di rievocare vecchi tempi ormai andati o di rivivere un'epoca che mai avete vissuto, mettete questo platter nel vostro lettore, infilatevi gli anfibi Dr. Martens e il vostro giubbotto di pelle e lanciatevi nel pogo selvaggio degli "Eretici". (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2016)
Voto: 70

https://hereticvanrecords.bandcamp.com/

giovedì 9 luglio 2015

Árstíđir Lífsins - Aldafödr Ok Munka Drottinn

#PER CHI AMA: Black/Viking/Folk, Einherjer, Primordial, Enslaved 
Non mi stancherò mai di ribadire come la Ván Records rappresenti un indiscusso sinonimo di eccelsa qualità. L’abbiamo visto recentemente con band del calibro di Macabre Omen, Sulphur Aeon o i nostrani Caronte, lo confermo oggi con il come back discografico degli impronunciabili islandesi Arstidir Lifsins e del loro terzo album, uno splendido doppio lavoro in formato digipack, dal semplicissimo titolo ‘Aldafödr Ok Munka Drottinn’. Il disco, che vanta anche un raffinato booklet interno tra testi in lingua madre e traduzioni in inglese, affronta le consuete tematiche legate alla mitologia nordica, che rappresentano la principale fonte di ispirazione del terzetto islando-germanico. Cinque le tracce comprese nel primo cd di questa eroica saga, che apre con la lunga “Kastar Heljar Brenna Fjarri Ofan Ǫnundarfirðinum” che narra la storia dei fratelli Hoskuldr e Sigfùss, muovendosi tra furibonde cavalcate black e intermezzi di epica narrazione, con le voci che si alternano tra un selvaggio screaming e un parlato narrativo che tornerà anche nei seguenti brani. Proprio all’inizio di “Knǫrr Siglandi Birtisk Á Löngu Bláu Yfirborði” infatti, vi è infatti un racconto introduttivo di Marsél Dreckmann (membro dei tedeschi Helrunar). Poi le spade vengono brandite al cielo, gli eserciti allestiti per la guerra e quello che posso immaginare nella mia fantasia, è il momento che anticipa la battaglia e gli inni che vengono intonati prima di essa, con la musica che si muove tra suggestioni cinematiche, scorribande black e frangenti ambient. Il fragore delle armi irrompe nella malvagia “Þeir Heilags Dóms Hirðar”, song black mid-tempo che ha modo di esibire fantastici intermezzi acustici che ne placano l’incedere violento e funesto, in una lunga evoluzione di quasi 14 minuti. Con “Úlfs Veðrit Er Ið CMXCIX” immagino di contare i morti sul campo di battaglia, complice l’avanzare greve all’insegna di un doom drammatico e solenne che da lì a poco evolverà verso lidi di rabbia furente, interrotta solo dal calar delle tenebre, che si manifestano con un ridondante suono di chitarra acustica e voci narranti in sottofondo che raccontano le gesta di antichi eroi. “Máni, Bróðir Sólar Ok Mundilfara” sembra suonare interlocutoria, quasi come un ponte che colleghi il primo disco al secondo che va a prepararsi. I cadaveri dei caduti vengono bruciati e le loro anime che si dirigono verso il Valhalla, celebrate con i canti folklorici di “Tími Er Kominn At Kveða Fyrir Þér”. Le ostilità riprendono con “Norðsæta Gætis, Herforingja Ormsins Langa”, song che mostra qualche richiamo ai Primordial e sembra dotata di un forte sentimento vichingo. Si continua a mantenere alta la tensione con “Bituls Skokra Benvargs Hreggjar Á Sér Stað”, altro esempio di come si possa combinare black, viking, epiche melodie, folklore e doom, senza rischiare di stancare l’ascoltatore. A chiudere ‘Aldafödr Ok Munka Drottinn’ ci pensa la mesta melodia di “Sem Lengsk Vánar Lopts Ljósgimu Hvarfs Dregr Nærri” che nella mia mente rappresenta il ritorno a casa dei pochi fieri sopravvissuti alla guerra. Arstidir Lifsins, un gradito ritorno. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2014)
Voto: 80

domenica 28 giugno 2015

Griftegård - The Four Horsemen

#PER CHI AMA: Doom, My Dying Bride
La Ván Records ci delizia con un'altra perla musicale, cosi come ci sta abituando da qualche tempo a questa parte l'etichetta tedesca. Questa volta ci conduce in Svezia per farci meglio conoscere i Griftegård, band attiva dal 2004, ma con un solo Lp nella propria discografia e una manciata di EP e split cd alle spalle. Solo due i pezzi che costituiscono 'The Four Horsemen': la title track, cover song degli Aphrodite's Child, band progressive greca di fine anni '60, in cui militava il mitico Demis Roussos, scomparso proprio quest'anno. E forse "The Four Horsemen" vuole essere un tributo a uno dei bassisti più talentuosi del rock, che si rifaceva nel suo stile, a Paul McCartney e Brian Wilson. La canzone, nel suo oscuro incedere doom, riscopre la poesia psichedelica della band greca, e di quella song di primissimi anni '70, dischiudendo la magia musicale che trasudava dalle note immortali degli Aphrodite's Child. La seconda traccia, "A Beam in the Eye of the Lord", è un puro pezzo doom che potrebbe evocare i My Dying Bride, fatto salvo per la voce pulita di Thomas Sabbathi, che solo in alcuni frangenti, cambia registro e si getta su tonalità più profonde. Il brano è lento e disperato e racchiude l'essenza tipica del genere, galleggiando in un mare di cupa desolazione (e ottime melodie). Peccato che il dischetto duri solamente 16 minuti, mi sarebbe piaciuto approfondire maggiormente il sound dei Griftegård, vorrà dire che mi affiderò a internet per saperne di più di questi nuovi cavalieri dell'apocalisse. (Francesco Scarci)

(Ván Records - 2015)
Voto: 70

lunedì 25 maggio 2015

Caronte - Church of Shamanic Goetia

#PER CHI AMA: Doom, Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus
I Caronte sono una di quelle band che una volta ascoltate dal vivo ti segnano per sempre. La loro musica, l'esperienza live e tutto quello che gravita attorno al loro mondo, ti catapultano in una dimensione parallela e ti ritrovi a sogghignare senza sapere il perché. Cosa manca ai Caronte per essere tra le migliori venti doom band al mondo? Nulla e allora comprendi, il tuo terzo occhio si apre e vedi quello che è sempre stato li davanti alla tua cecità: una band di Parma nata cinque anni fa che scrive e suona come i Black Sabbath, Pentagram o Saint Vitus. Il quartetto formato da tre fratelli e un amico d'annata, ha alle spalle l'ottimo album 'Ascension' del 2012 e da poco sono usciti con 'Church of Shamanic Goetia', distribuito dalla tedesca Vàn Records. Innanzitutto il nuovo album si presenta in un digisleeve che potrei definire semplicemente stupendo e che ha pochi rivali in termini di fattura ed estetica: cartoncino nero di due millimetri di spessore (!!) con grafica impressa a caldo da entrambi i lati, inchiostro dorato per tutti i testi compreso il booklet, insomma un tripudio in edizione limitata che farebbe felice anche il più esigente dei musicofili. Considerando che l'etichetta avrebbe potuto mandarci una versione semplificata per gli addetti stampa, non posso che inchinarmi a cotanta generosità e cominciare ad aprire questo oracolo e ascoltarlo con profondo rispetto. Il cd contiene sette tracce che trasudano doom (precisamente "Shamanic doom" come piace dire ai Caronte) che ostenta misticismo e spiritualità in ogni singola nota. L'album apre infatti con "Maa-Kherus's Rebirth", un inno esoterico che affonda le proprie dita scarnificate nell'ancestrale storia africana e nel culto sciamanico egiziano. Mi scuso se quanto riporto non è corretto, ma attingendo dal web, leggo che Maa-Kherus è un' identità maschile (o femminile se indicato come Maat kheru) che ha raggiunto la maturità spirituale ed è quindi cosciente del proprio ruolo divino nel grande cerchio della vita. Ciò gli permette di essere sincero e di agire sempre nel giusto, un tema terribilmente attuale se si pensa a quanto sarebbe necessaria tale figura nella società moderna. Forse i Caronte esprimono al meglio la perenne ricerca della verità, del vita dopo la morte, guardando al passato in cerca di risposte e questo si riversa nella loro opera musicale. Il brano è puro doom onirico, cadenzato e pesante, ma mai funebre, proprio per sottolineare la celebrazione della rinascita. Grandi chitarre che divengono tappeto sonoro e contemporaneamente protagoniste delle melodie a colpi di riff. Basso e batteria sono l'altra metà perfetta del mix sonoro dei Caronte, decisi e senza mai esitazioni di sorta. La voce è il sigillo che completa il tutto, costantemente inneggiante al cielo e alla terra, un timbro che bilancia perfettamente il suono della band, infatti è tutt'altro che scuro e monotono. Ciò regala parecchia dinamica al brano e trasmette perfettamente le sensazioni di ogni singola parola. "Wanka Tanka Riders" innesta una marcia più alta mantenendo comunque lo stile Electric Wizard, incalzante ritmicamente come una ballata stoner e articolata grazie al break centrale che ci riporta alla meditazione dopo lo sfogo iniziale. L'utilizzo di effetti è ridotto all'osso e questo mette ancora più in gioco l'attenzione che la band deve avere per i riff e gli arrangiamenti. Le atmosfere sono sempre al top e gli otto minuti vi racconteranno una storia che vi catturerà dal primo accordo. Lo scopo ultimo della musica è proprio questo, come leggere un buon romanzo o farsi rapire da una pellicola. particolarmente coinvolgente. Al di la del genere, se il musicista riesce in questo, può considerarsi soddisfatto e guardare avanti per osare sempre di più. "Temple of Eagles" cambia ancora, con una possente intro noise-drone a fare da apripista al classico stile celebrativo del doom marchiato Caronte. Da questo brano è stato anche tratto l'ultimo video della band che racchiude un sapiente montaggio fatto di immagini che raffigurano indiani americani, popolazioni asiatiche, simbologia esoterica, fumatori di oppio e tanto altro, da vedere. Un brano colossale, artisticamente complesso perché studiato nei minimi particolari dove niente è stato lasciato al caso. Suoni sempre in linea con i temi trattati, soprattutto in questa traccia dove si celebra l'aquila che raffigura il psicopompo per eccellenza, colui che accompagna l'anima dello sciamano. Un concept album da avere, non solo per il delizioso packaging, ma perché avrete la prova inconfutabile che i Caronte sono una band eccezionale per cui vi assicuro, che verrete rapiti dal loro viaggio senza tempo... (Michele Montanari)

(Vàn Records - 2014)
Voto: 90

giovedì 21 maggio 2015

Crom Dubh - Heimweh

#PER CHI AMA: Black, Primordial, Drudkh
La cosa che mi ha colpito di più di questa band londinese è che riesce a suonare black metal pur non avendo i soliti retaggi stilistici. I canoni vengono sradicati quasi sistematicamente da una composizione insolita e intelligente, un suono tanto particolare che tutto ricorda tranne un furioso, scontato ensemble metallico! Il nome Big Country a molti metallari non dirà nulla, giustamente, poiché era una band scozzese dedita alla new wave/post punk negli anni ottanta (tutt'ora in attività) che non suonò mai heavy metal in vita sua ma un collegamento logico tra queste due diverse realtà c'è e ve lo spiegherò. Questa band aveva la splendida particolarità di usare le chitarre in una maniera tanto atipica da sembrare cornamuse scozzesi. Ecco, i Crom Dubh stanno al black metal come i Big Country stavano alla new wave tanti anni fa con la differenza che la loro musica è tribale, evocativa e violenta al tempo stesso. I nostri riescono infatti ad estrarre un suono astrale, sinfonico, suadente, desolato, romantico e inaspettato, diverso, cosi inconcepibile dal punto di vista musicale del genere che l'ascoltatore ne rimane sconcertato, ammaliato e spiazzato. È come un flusso magnetico che avvolge continuamente, che non confina forzatamente sentimenti malvagi o maligni ma che sprigiona sensazioni forti e ricercate, vortici maestosi e cadute infinite dell'anima, viaggi introspettivi guidati da un sound prevalentemente gestito da chitarre che sembrano emulare l'ancestrale grido di battaglia delle cornamuse scozzesi da me immaginate, in piena solitudine, con un vento gelido che graffia sul volto. Niente che sia gotico o barocco, niente di sinfonico nel senso stretto del termine, solo un flusso che porta affinità verso le cinematiche evoluzioni del post rock, che esalta il tocco etereo e la malinconia della musica celtica senza mai perdere il tiro e l'attitudine della musica estrema. "The Invulnerable Tide" è la canzone simbolo, geniale e guerriera a cavallo tra folk, atmospheric e black metal, influenzata da Drudkh, Primordial, Negura Bunget e primi Ulver, il tutto rivisitato con una personalità cresciuta in modo esponenziale in più di dieci anni di attività, con il vento glaciale e alternativo dei Solstafir nelle ossa e con chitarre memorabili, indimenticabili, una vera delizia per le orecchie. "Sedition" è un'altra perla che scardina e sconvolge i tratti del genere folk metal, animandosi di energia doom, magistrale enfasi e da un finale epico, un celtic black metal senza strumenti etnici e una batteria supersonica, con le vocals che ricordano i grandissimi Warhorse, straordinaria. Un artwork ricercato e curatissimo per un album da scoprire e ascoltare all'infinito! Uscito per la Van Records nel 2015, 'Heimweh' è composto da ben dieci brani in quarantaquattro minuti circa, un lavoro destinato a divenire presto un oggetto del desiderio... non fatevelo scappare! (Bob Stoner)

(Van Records - 2015)
Voto: 80

domenica 26 aprile 2015

Sulphur Aeon - Gateway to the Antisphere

#PER CHI AMA: Death Metal, Behemoth, Absu
'Swallowed by the Ocean’s Tide' fu un buon disco di debutto, all'insegna di un classico death/black metal, ma diciamocelo con franchezza, nulla di cosi trascendentale. Tornano i tedeschi Sulphur Aeon con un album nuovo di zecca, 'Gateway to the Antisphere', e le cose si fanno decisamente più attrattive, forti anche della collaborazione alle proprie spalle di Vàn Records e Imperium Productions. Lo stile dei nostri veleggia verso lidi più death oriented, influenzato dai racconti di H.P. Lovecraft e trasfigurato in sontuosi arrangiamenti e spietate melodie. Dopo la prevedibile intro, ecco imperversare le chitarre di "Devotion to the Cosmic Chaos", song che deflagra con un ritmo dapprima arrembante e che poi si accomoda su un mid-tempo melodico, che trova anche modo di citare i Melechesh più orientaleggianti. Con "Titans", il terzetto della Renania torna a descrivere atmosfere orrorifiche degne del famoso scrittore di Providence, anche se è con la successiva "Calls from Below" che i riferimenti alle divinità blasfeme e alle creature cosmiche descritte nel 'Ciclo di Chtulu', trovano la loro perfetta collocazione. Il sound si muove infatti su un territorio più melmoso, alternando sonorità impetuose con atmosfere infestate dai mostri fantasy di Lovecraft. Se "Abysshex" rappresenta l'ennesima rasoiata in termini di furia death metal, "Diluvial Ascension - Gateway to the Antisphere" raffigura invece la perfetta narrazione della discesa negli abissi oceanici, lenta e tortuosa, in assenza di ossigeno e luce, inquietante e misteriosa, spaventosa e drammatica. La musica in questa traccia acquisisce toni angoscianti, cupi e minacciosi, andando a scalare la mia personale classifica di gradimento delle song e qualificandosi come mia traccia preferita. Ben bilanciata a livello di chitarre, ottima la sepolcrale performance vocale di M. e solenne è la furia vibrante insita nelle ritmiche del brano, che richiama in causa nuovamente Melechesh, ma anche Absu, e Behemoth, per un risultato finale da peggiore degli incubi. Il furore del trio germanico trova sfogo anche in "He is the Gate", mentre in "Seventy Steps" sembra incappare in un apparente attimo di quiete che nella seconda parte della song, avrà di nuovo modo di irrompere con ottime linee di chitarra, dal sapore quasi avanguardistico, che ammiccano addirittura ai Ved Buens Ende. La ferocia dei Sulphur Aeon è implacabile, anzi continua a spingersi oltre, sferrando colpo dopo colpo, attacchi di elegante brutalità che evocano la malignità degli Aevangelist, la morbosità dei Morbid Angel e l'indigeribilità dei Mitochondrian, in un album di totale devastazione che sul suo cammino sarà solo in grado di mietere vittime. Che altro dire se non suggerirvi di far vostro quanto prima questo lavoro, non fosse altro per lo splendido e curatissimo digipack con cui le etichette lo presentano. Sulphur Aeon, dannatamente feroci. (Francesco Scarci)

(Vàn Records/Imperium Productions - 2015)
Voto: 80

martedì 14 aprile 2015

Macabre Omen - Gods of War - At War

#PER CHI AMA: Epic Black, Bathory, Rotting Christ 
La Vàn Records è una signora etichetta: a partire infatti dalla scelta oculata delle band appartenenti al proprio rooster, per arrivare agli artwork curatissimi delle sue release, che da soli valgono il prezzo del cd, la label tedesca si conferma ad altissimi livelli. Se poi con gli eroi di quest'oggi mi ritrovo anche ad andare indietro nel tempo di quasi vent'anni, godo ancora di più. Si perché 20 anni fa, quando il movimento black greco stava esplodendo (Rotting Christ, Septic Flesh, Necromantia e Varathron, tanto per fare qualche nome), io andavo in cerca di una tape dei qui presenti Macabre Omen, band dedita ad un black pagano di qualità sopraffina. Il suono del mare apre 'Gods of War - At War', comeback discografico che giunge a distanza di ben 10 lunghissimi anni da quel 'The Ancient Returns', ormai datato 2005. Ecco tornare quindi il buon Alexandros di Rodi, che per lungo tempo ha tenuto da solo le redini dell'act ellenico. Il disco si apre con "I See, the Sea!" che fondamentalmente conferma quanto avevo captato 20 anni fa, i Macabre Omen sono una mitica creatura musicale che mantiene intatto quel fiero spirito di cui le band greche erano e restano portatrici, come nessun altro al mondo. Il tutto si evince solamente dall'ascolto della epica opening track che si muove sul sentiero di un black heavy di matrice scandinava, con i Bathory più solenni in testa. La title track ci riserva quasi nove minuti di rasoiate feroci, in cui è comunque una certa magniloquenza di fondo a stagliarsi come vera protagonista di questa release. Poco importa se le ferite inferte da una ritmica feroce sembra la facciano da padrone o i vocalizzi, spesso di scuola burzumiana, possano ancora farvi storcere il naso. La musica dei Macabre Omen ha un che di mistico, fascinoso e antico, in grado di riportare in voga la gloria e i fasti di una civiltà fondamentale per l'intero pianeta. I Macabre Omen sono tornati per prendere in mano quello scettro lasciato da Quorthon quando ha abbandonato questo mondo, loro ne sono gli eredi indiscussi. Un delicato arpeggio ci introduce a "Man of 300 Voices" e inevitabile il pensiero va a Leonida, ai suoi 300 soldati e alle gesta eroiche della Battaglia delle Termopili. Un brivido percorre le mie braccia ripensando a quel celebre episodio della storia e i suoni mediterranei dell'ensemble di Rodi (ora trasferitosi a Londra) ne decantano il mito in un mid-tempo trionfale, a tratti furioso. Emblematico invece il titolo della successiva traccia, "Hellenes Do Not Fight Like Heroes, Heroes Fight Like Hellenes", a testimoniare quell'orgoglio che andavo citando all'inizio; musicalmente la song si avvicina a un mix tra Bathory, Master's Hammer e Rotting Christ, con le vocals del frontman che prendono finalmente le distanze dal Conte e si muovono tra chorus orchestrali, parlati, puliti e "incazzati". "From Son to Father" ripercorre al contrario il sentiero tracciato da Quorthon in 'Hammerheart', ossia la mitica "Father to Son" e analogamente la song dei Macabre Omen mantiene intatto quell'eroico feeling che scosse la mia anima ormai 25 anni or sono. L'orgoglio per l'isola di Rodi viene scosso dalle scorribande sonore di "Rhodian Pride, Lindian Might", song battagliera, che palesa ancora una volta l'amore di Alexandros per la propria terra, che si materializza in un burrascoso sound epic black death. A chiudere questo brillante nuovo capitolo dei Macabre Omen, ci pensano le Odi A e B di Alexandros, che si aprono con altri arpeggi che chiamano in causa questa volta 'Twilight of the Gods', mentre nel cuore dei due brani, si arrivano a scomodare addirittura Primordial e Candlemass. Che altro dire, se non sperare fortemente che non servano altri dieci anni per sentir parlare nuovamente dei Macabre Omen, proprio ora che il pubblico e la stampa, li ha insigniti come veri degni eredi dei Bathory. (Francesco Scarci)

(Vàn Records - 2015)
Voto: 85

martedì 26 agosto 2014

Dread Sovereign - All Hell's Martyrs

#PER CHI AMA: Doom, primi Cathedral, Candlemass
Continua la mia ricerca estiva di nuove new sensation da poter segnalare ai lettori del Pozzo dei Dannati. Oggi mi soffermo su una band che in pochi minuti è riuscita a catturare la mia attenzione e spingermi alla recensione. Sto parlando dei Dread Sovereign (side project dei Primordial) e alle 10 tracce contenute in 'All Hell's Martyrs'. Dopo un intro in cui mi è sembrato di udire i Pink Floyd (ma forse me lo sono solo sognato), ecco che faccio conoscenza dei nostri con “Thirteen Clergy”, song heavy doom che mostra, come a quasi vent'anni di distanza da 'Tales of Creation' dei Candlemass, sia ancora possibile proporre una forma abbastanza originale del genere. Detto dell'incedere doom dei nostri, mi soffermerei sulla performance del vocalist, Alan Nemtheanga leader dei Primordial, a proprio agio sia su tonalità alte che su quelle medie; notevoli le linee di chitarra a cura di Bones dei Wizards of Firetop Mountain, abile nel costruire atmosfere horror, ma notevole anche in fase di solo. La prova dei Dread Sovereign è già molto convincente e con la successiva “Chtulu Opiate Haze”, prospetta di essere ancora meglio. Le ambientazioni spennellate puzzano di zolfo, con la musica dei nostri che si assesta su tempi medio bassi e che acquisisce una certa epicità grazie a una componente vocale più cattiva che emula quella della band madre, esaltandone il risultato conclusivo. L'incedere è lento, il sound funereo, le chitarre fanno egregiamente il loro lavoro e il disco non può passare inosservato, anzi non deve. Vibranti, emozionanti, magnetici ed epici, ecco poche parole che in breve potrebbero descrivere la musica dei Dread Sovreign. “Pray to the Devil in Man” è un pezzo dal flavour epico che ancora a livello ritmico prende come riferimento i gods irlandesi, con le vocals che si muovono verso lidi d'avanguardia a la Arcturus, alternato a un growl più torbido. Si prosegue con la liturgica “Scourging Iron” e l'ensemble convince sempre di più, con un suono assestato su un mid-tempo, in cui inevitabilmente il ruolo di protagonista è assunto dall'ottimo vocalist irlandese e dalle favolose linee di chitarra che sciorinano riffs da favola (pensate a 'The Ethereal Mirrors' dei Cathedral) e mi inducono a pensare: questo è rock! Non aggiungo altro, inutile soffermarsi anche sulla malinconica e lunghissima “We Wield the Spear of Longinus” o sulla conclusiva title track, altre due gemme di notevole spessore di questo sorprendente lavoro. Da avere! (Francesco Scarci)

(Vàn Records - 2014)
Voto: 80

domenica 5 gennaio 2014

The Ruins of Beverast - Blood Vault - The Blazing Gospel of Heinrich Kramer

#FOR FANS OF: Occult Black/Death Symph.
Only in regards to a band of monumental calibre like The Ruins of Beverast could I call its latest album arguably the weakest of the four so far, and simultaneously laud it as one of the year’s strongest musical contenders. The Ruins of Beverast have long been black metal’s best kept secret, and since the gloriously psychotic 'Unlock the Shrine', the one-man act- a longtime creative outlet of former Nagelfar drummer Alexander von Meilenwald- he’s been releasing music that’s consistently blown me away for its ambitious scope and atmosphere. Of the three albums The Ruins of Beverast have already released, I have, upon different occasions, thought of each one as potentially being the greatest black metal album ever made. I’ll try to keep background introductions brief, but if you haven’t yet heard 'Unlock the Shrine', 'Rain Upon the Impure', or 'Foulest Semen of a Sheltered Elite', you have yet to hear some of the most impressive and atmospheric metal ever pressed to vinyl. Now completing a transition towards doom metal that began with the last album, 'Blood Vaults' is another expectedly excellent achievement, an hour-plus of music that’s as haunting and crushing as anything I’ve heard in the metal sphere this year. Incredibly high expectations aside, The Ruins of Beverast have delivered another masterpiece of atmosphere and intensity, with enough stylistic innovation to distinguish it from past work. This is blackened doom metal of ferocious quality. The sound of The Ruins of Beverast has evolved beautifully over the course of four albums. Although Von Meilenwald was performing something more along the lines of psychotic black metal in 2004 with 'Unlock the Shrine', each album has reinvented the project as something new. 'Rain Upon the Impure' took the black metal to arrogant extremes of atmosphere and composition, verging on a degree of ambition rivalled by Western classical tradition. 2009’s 'Foulest Semen of a Sheltered Elite' was another necessary reinvention; now that one summit had been topped, Von Meilenwald began infusing his brand of black metal with doom metal and psychedelia. To summarize, it shouldn’t be surprising to anyone that The Ruins of Beverast have drifted this far away from black metal conventions; even if TROB retains the same malefic atmosphere in the music, the means to getting there have certainly changed. The Ruins of Beverast’s familiar blend of choral sampling, chaotic production and cinematic vigour are made anew with a crushing heaviness and funereal pacing. Disregarding the fury and aggression inherent in the music’s execution, Von Meilenwald has taken a relatively reserved approach in writing the music this time around. Especially when compared to the sporadic rapture of 'Rain Upon the Impure', the pacing is kept fairly conservative, offering more vested concentration and fewer surprise turns. Although part of me misses the pleasantly mild shock of hearing something unpredictable, the songwriting enjoys a new maturity through its focus. A stunning example of this can be found in the pristine “Malefica”, a dirge-like piece that meticulously erupts with equal parts dread and melancholy. Latin choirs and pipe organ are used brilliantly as a sonic contrast with the thundering metal instrumentation. Orthodox instrumentation is a painfully common trope in black metal, but it’s rare that it ever functions so well as this. In addition to “Malefica”, “Daemon”, “A Failed Exorcism”, and the unsettling interlude “Trial” all stand out as highlights of the album, and some of the most memorable pieces Von Meilenwald has ever composed. Unfortunately (and this is a first for my experience with a TROB album) I don’t find myself as consistently amazed by each of the tracks. I’m not immune to the fact that a doomier approach entails with it a slower pace and behests a different kind of listening attitude than that of Beverast albums past, but a few of the ideas on 'Blood Vaults' feel less profound and engaging than I’d expect from the band. For instance, “Spires, the Wailing City” and “Monument” are both crafted with excellent ingredients, but feel somewhat overdrawn past their due; the ideas themselves are almost homogeneously superb, but even the strongest structures wither given time. While Von Meilenwald is no stranger to long compositions- 'Rain Upon the Impure' had even longer average track times than this- the sometimes plodding pace of the compositions can make some of the musical ideas feel less awe-inspiring than they actually are. I felt that Von Meilenwald struck a sublime balance between black metal and doom with the last album, a middle ground between crushing heaviness and exciting dynamics. Blood Vaults only sees The Ruins of Beverast tread deeper into doom territory, and while the devastating atmosphere and progressive scope are still here in full, I don’t find myself quite as blown away by this stylistic shift as I have been with his past work. Then again, comparing a pristine mortal vintage to the ambrosia of the gods has never been a fair deal, has it? Although 'Blood Vaults' represents a markedly more reserved take on composition for Von Meilenwald, his execution sounds heavier than ever. I strain myself to think of another guitar tone that has sounded this heavy and crushing. Even though most one-man acts feel fittingly one-sided in their delivery, 'Blood Vaults' feels remarkably well-rounded. The orthodox instrumentation is integrated to a haunting effect, and the drums- Von Meilenwald’s flagship instrument- are as intensely performed as ever. As it is made clear from the opening incantation “Apologia”, Von Meilenwald’s vocals take a hideous life of their own. Laden with echoes and a viciously malevolent tone, his growls are plenty evocative and fit the album’s sinister atmosphere and malefic interpretation of Christian theology. His clean vocals- when used- are deep and ominous, and mirror the Latin choirs nicely. Compared to past albums however, it feels like his vocal delivery offers a little less range however, focusing on the low, echoed growls and dismissing much of his higher shrieks. It’s an understandable transformation however; Von Meilenwald understands the implications of this stylistic shift, and The Ruins of Beverast reflects that. As difficult as it is for me, I feel the only fair way to approach this album is to do one’s best to dissociate it from TROB albums past. Clearly, it’s much harder said than done, but to compare 'Blood Vaults' against its predecessors would reveal this as the least vital of the four. With that in mind, I do not mean or hope to say that The Ruins of Beverast has broken its streak of relative perfection; this is a marvelous work, and I have no doubt that Von Meilenwald will continue to release masterful work in his own time. To put it simply, the album is devastating. (Conor Fynes)

giovedì 14 novembre 2013

Atlantean Kodex - The White Goddess

#FOR FANS OF: Classic Heavy Metal, Doom, Candlemass
Coming a full three years after their spirited-but-flawed debut, the second full-length from German Epic Heavy/Doom metallers Atlantean Kodex, 'The White Goddess (A Grammar of Poetic Myth)' is probably one of the years’ finest achievements and a sparkling example of a band firing on all cylinders of their chosen sound. Brimming with sprawling guitars firing off classic heavy metal riffs within a plodding, majestic pace that rivals the speed and urgency of doom metal at times, with ecstatic vocals and well-timed narration samples woven into the story, this is a record that ebbs and flows from up-tempo back to atmospheric touches and finally to mid-range with absolute conviction and intent which allows for a warmness and natural sound that isn’t heard very much. It isn’t full of bad tracks at all, as the five proper full-length tracks are utter stand-outs though most memorable would belong to "Heresiarch (Thousandfaced Moon)" for the way it manages to include so many weaving patterns throughout without losing an ounce of power through its sterling performances. As well, the closing duo of "Enthroned in Clouds and Fire (The Great Cleansing)" and "White Goddess Unveiled (Crown of the Sephiroth)" provide similar reactions from their sparkling guitar-work, dynamic drumming and memorable songwriting that manages to leave ten-minute plus works without any sense of plodding filler-moments or sense of boredom. This is mostly due to guitar tandem Michael Koch and Manuel Trummer who spit out a series of inviting, melodic leads throughout the course of the album that are quite dynamic and heavy while mixing in the melody where appropriate, though undoubtedly the true star of the record is vocalist Markus Becker who utterly shines with a series of sparkling vocal work-outs full of emotion, power, range and dynamics that call for a wide variety of different attributes and he comes through spectacularly, stealing the spotlight numerous times. While the effort may be overkill at times with it’s epic length for really only five true tracks out of eight that may be seen as it’s true downfall, there’s so much else to like elsewhere this will be near the top of many year-end Best-Of lists and is an essential listen. (Don Anelli)

(Van Records - 2013)
Score: 90

http://www.atlanteankodex.de/

martedì 15 gennaio 2013

Árstíđir Lífsins - Vápna Lækjar Eldr

#PER CHI AMA: Black Metal, Folk, Helrunar, Drautran
Sono sensazioni altalenanti quelle che derivano dall’ascolto del secondo album degli Árstíðir Lífsins, formazione per metà islandese e per metà tedesca, che annovera tra le proprie fila anche membri di Helrunar e Drautran. Certo, non si può negare che la musica proposta dal gruppo sia di pregevole fattura. Per di più la raffinata commistione tra elementi folk e black metal costituisce un elemento di sicuro interesse per tutti gli amanti di queste sonorità. Cos’è che non funziona, dunque? Forse il problema è l’aspettativa. È probabile infatti che ogni buon intenditore del genere pagan-folk venga conquistato dal suono dell’album con una certa facilità riconoscendo immediatamente che l’uso di aggettivi quali “pregevole” o “raffinato” non sia affatto casuale, ma è proprio quando le premesse sono così invitanti che cresce l’attesa. In poche parole, l’attesa che qualcosa di straordinario ed emozionante accada durante l’ascolto. Ebbene, gli Árstíðir Lífsins si muovono impeccabili lungo un percorso di nove brani dal fascino indiscutibile, ma si limitano ad affrontare i sentieri più facili e sicuri, quelli già battuti da chi li ha preceduti nel loro cammino, senza osare qualcosa in più e senza mai deviare dal percorso prestabilito. Talvolta gli scorci più belli di un paesaggio si scoprono avventurandosi oltre i confini già esplorati, ed è in quei momenti che nasce un’emozione. Peccato che la composizione di “Vápna Lækjar Eldr” sia rimasta intrappolata dentro quei confini, ricalcando alcuni schemi già sentiti e offrendo rari momenti di slancio. L’uso in chiave folk dei cori, della chitarra acustica e degli strumenti ad arco, è tutt’altro che disprezzabile e nel complesso si riconosce un contributo importante da parte di ciascuno dei quattro strumentisti a creare atmosfere piacevoli che elevano l’album ben al di sopra della media. Tra l’altro il connubio tra sonorità estreme e tradizionali, non scade mai nel cattivo gusto, per cui sarebbe ingiusto muovere un appunto al gruppo sul lato prettamente tecnico o sulla loro capacità di creare delle composizione strutturate. Quel che manca davvero è la carica emozionale. I primi tre brani, per quanto timidi, lascerebbero sperare in un decorso ben più coinvolgente, ma poi l’album si arena nella monotonia ed è necessaria un po’ di pazienza, prima di incontrare qualcosa di realmente appassionante. Tanta pazienza, a dire il vero, considerato che stiamo parlando di 77 minuti di musica e che i brani più riusciti siano i due posti in chiusura alla scaletta. "Svo Lengi Sem Sutrs..." e "Fjörbann..." fanno dunque riacquisire quota all’album con la forza delle percussioni, l’asprezza del cantato e la poesia di alcuni intermezzi di synth-piano e violino. Così l’ascolto si conclude in bellezza e quantomeno rimane la sensazione che il contenuto musicale di "Vápna…" sia all’altezza della sontuosa ed ingombrante confezione a libro che racchiude il cd e che va menzionata non solo per dovere di cronaca, vista l’abbondanza di pagine e la cura grafica con cui è stata realizzata. (Roberto Alba)

(Ván Records, 2012)
Voto: 75

http://www.arstidirlifsins.net/

giovedì 20 dicembre 2012

Freitod - Regenjahre

#PER CHI AMA: Black Shoegaze, Katatonia, Alcest
Un digipack elegante, con una foto sfocata sulle sfumature blu e nero; ecco cosa ho fra le mani quest’oggi. Inserisco l’argenteo disco nel lettore e voilà, mi lascio immediatamente imbrigliare la mente dalle sue malinconiche melodie che evocano ricordi lontani e mi spingono in territori nordici, pensando a Katatonia (era “Brave Murder Day”) e Rapture. Signori vi presento i Freitod e quella che dovrebbe essere la loro seconda release, “Regenjahre”, fuori per la Van Records, dopo “Nebel Der Erinnerungen” uscito nel 2010. Ma se la title (ed opening) track può suonare come i mostri scandinavi, la seconda “Der Trauersturm”, pesta decisamente molto di più sull’acceleratore, con scorribande furenti in territori black. Non fatevi tuttavia ingannare, perché è solo mera apparenza: il duo teutonico ci sa fare con i propri strumenti e imbrigliare anche le vostre di menti, sarà un gioco da ragazzi. Ecco quindi che il black si miscela abilmente con una vena shoegaze, palesata anche da clean vocals che richiamano gli Alcest e con linee di chitarra pregne di romantico decadentismo. Dopo la seconda traccia, mi sento già molto in empatia con questa nuova band, a me sconosciuta. “Neue Wege” riprende le sonorità oscure degli esordi di Blackeim e soci, agghindandole con ottime voci pulite, break acustici e una tecnica eccelsa, coniugando le vecchie influenze con quelle attuali, dando alla luce ad un prodotto assai competitivo e che già ora mi sento di consigliare, e dire che non sono neppure a metà disco. Con “Letztes Wort” mi trovo a scollinare con la sua apertura interamente affidata ad un drumming dirompente e a delle chitarre che ringhiano, palesando in questo caso, l’amore dei nostri per i Celtic Frost. Il vecchio e il nuovo si incontrano, scontrano e compenetrano, nell’antro oscuro della bestia, in quello che probabilmente è l’episodio più ruvido dell’album. Con “Sterbenswert” si torna infatti su toni più rilassati: un bel giro acustico con voce pulita incorporata, una vena assolutamente nostalgica, un eco dei vecchi Paragon of Beauty (e dei nostrani Novembre) anche nelle ispiratissime chitarre elettriche; ma questa diciamocela, è una semi-ballad, non c’è da vergognarsene, ma anzi apprezzare la vena esplorativa del duo formato da Gerd Eisenlauer e Robert Seyferth. Con ottimo tempismo arriva “Nichtssagend”, altra perla di black shoegaze evocativo e ricercato, che getta le basi per la lunga (12 minuti) e conclusiva “Wenn Alles Zerbricht”, che chiude amabilmente un disco che identifica i Freitod tra le migliori espressioni di black melodico teutonico intriso di ispiratissimo shoegaze, in (ottima) compagnia di Lantlôs, Heretoir ed Infinitas. Ottima scoperta. (Francesco Scarci)