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domenica 27 giugno 2021

Akvan - City of Blood

#PER CHI AMA: Ethnic Black
Credo sia risaputo quanto il sottoscritto sia alla costante ricerca di band provenienti dagli underground più stravaganti del mondo. Questi Akvan arrivano da Teheran (anche se il mastermind dietro a questa creatura, Dominus Vizaresa, è nato negli U.S. e poi si è trasferito in Iran) e sotto l'egida della Snow Wolf Records ma pure della nostrana Subsound Records, per ciò che concerne l'edizione in vinile, eccoli ritornare con questo nuovo 'City of Blood'. La peculiarità della one-man-band iraniana è quella di proporre un black alquanto primordiale, contaminato però da melodie etniche provenienti dalla tradizione persiana. Certo, l'opening track "Vanquish All" è prettamente un pezzo black grezzo, con tanto di produzione assai scarna, chitarre zanzarose e screaming vocals, molto '90s per intenderci nei suoi contenuti. Tuttavia, alcuni giri di chitarra o alcune melodie punteggiate peraltro da strumenti della tradizione locale, sembrano proprio condurci in quei luoghi cosi carichi di fascino e mistero. E il risultato alla fine ne beneficia alla grande, perchè non vi dirò che gli Akvan sono dei banali persecutori della tradizione black degli anni '90, ma in realtà propongono un sound carico di malinconia, cosi sognante a tratti ma comunque ben caratterizzato a livello musicale e pure a livello solistico. "Hidden Wounds" irrompe con un tremolo picking tipicamente black ma dopo due secondi si capisce che si tratta di melodie tipiche della tradizione mediorientale, che prendono le distanze da quanto proposto da altri esponenenti della scena per certi versi affini, come Melechesh o Arallu. Qui ci sento infatti un qualcosa di più integralista, più vero, con le radici ben affondate nella cultura persiana. E fa niente che poi quello che ci ritroviamo fra le mani sia black a tutti gli effetti, le atmosfere che respiro e vivo durante l'ascolto di questo pezzo, cosi come soprattutto nella seguente "In Narrow Graves", pezzo strumentale di tradizione persiana senza chitarra, basso e batteria, mi regalano qualcosa di importante e profondo. La conclusiva "Halabja" è l'ultimo vorticoso capitolo di questo EP, che delinea lo stato di grazia, l'ispirazione e l'originalità di Dominus e dei suoi Akvan. (Francesco Scarci)

(Snow Wolf Records/Subsound Records - 2021)
Voto: 74

https://akvan.bandcamp.com/album/city-of-blood-3

giovedì 23 maggio 2019

Malclango - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock strumentale, Primus
“Due bassi e una batteria per denudare il math-rock fino a lasciarlo in mutande”. Questo il manifesto dell’anonimo trio strumentale romano (dal vivo, i Malclango indossano scimmie da gorilla e, a quanto sembra, nessuno sa davvero i loro nomi), che sforna un disco essenziale nei suoni ma molto intelligente dal punto di vista compositivo. Essenziale, ma non minimale: scordatevi la forma-canzone, scordatevi ritornelli da fischiettare o melodie catchy. I due bassi si muovono eclettici tra distorsioni e pulizia, tra accordi e soli, note e riff; imponente anche il lavoro ritmico, sempre preciso e mai troppo autoreferenziale. A colorare il risultato finale, campionature assortite tra versi di scimmie, battimano, vento che soffia, spezzoni di notiziario. Si passa senza indugio dalla velocità dispari di “Nimbus” alle ritmiche tribali di “Petricore”, dalle dissonanze di “Ostro” alla malinconia deviata di “Anatomia di un battibecco”, dalla rabbiosa “GranBurrasca” alla saltellante “Sant’Elmo”. Ci vuole un attimo a trasformare tanta varietà e libertà compositiva in un prodotto freddo e studiato a tavolino. Ma non è il caso dei Malclango che, anzi, confezionano un vero disco rock: di un rock essenziale e primitivo (le tre scimmie nella tempesta, in copertina, la dicono lunga), che rompe le convenzioni e fluisce — non a caso: il tema dell’acqua e della pioggia è un leit-motiv trasversale a tutti i pezzi —, libero da strutture o ritmiche pari, libero da etichette di genere. È un lavoro che pesca contemporaneamente da Primus e Sonic Youth, Fluxus e jazz, primi Soul Coughing e dalla musica folk, destrutturando e ricomponendo tutto senza paura ma con molta, molta ironia.(Stefano Torregrossa)

(SubSound Records - 2017)
Voto: 74

mercoledì 22 agosto 2018

Kyterion - Inferno II

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Marduk
Dante Alighieri non ha fatto scuola solo nella letteratura o nel cinema (penso ad 'Inferno' di Dan Brown), ma anche a livello musicale con i bolognesi Kyterion a seguire le orme del maestro fiorentino attraverso il loro secondo capitolo 'Inferno II', ispirato appunto alla cantica omonima de 'La Divina Commedia', il tutto peraltro rigorosamente cantato in italiano vernacolare. Non deve fuorviare però l'utilizzo della nostra lingua del XIII secolo e farci pensare a qualcosa di medievale o folk abbinato al metal perché, per chi non conoscesse questo misterioso combo emiliano, la proposta è invece votata ad un infuocato e canonico black metal, come è giusto che sia se si vuole descrivere il calderone peccaminoso dell'Inferno dantesco. E cosi lungo le undici tappe incluse nel cd, non dobbiamo far altro che immergerci nella furia black di stampo scandinavo (scuola Dark Funeral, Necrophobic per intenderci), espletata dai quattro enigmatici membri dei Kyterion. Spazio quindi alle rasoiate ritmiche di "Mal Nati", "Dite", della più compassata "Pena Molesta" o di "Cerbero il Gran Vermo", tanto per citare i momenti più convincenti della prima metà del cd, poi a "Cocito" e "Vallon Tondo" le overture strumentali che introducono le successive "Dolenti Ne la Ghiaccia" e "Li 'Ndivini", in cui la veemenza del black nudo e crudo, continua ad aver la meglio. Peccato non aver introdotto qualche momento più ragionato o declamatorio, in cui potesse sentirsi forte l'influenza medievale del gran maestro nelle note di questo 'Inferno II' che perde ahimè la caratterizzazione legata al nome di Dante Alighieri. Questo per dire che 'Inferno II' poteva essere concepito in Svezia, negli Stati Uniti o in Cina, e la differenza non era assolutamente percepibile. Un peccato, perchè si poteva sfruttare in un modo diverso e forse più convincente. (Francesco Scarci)

(Subsound Records - 2018)
Voto: 60

https://kyterion.bandcamp.com/album/inferno-ii

sabato 29 luglio 2017

L’Ira del Baccano - Paradox Hourglass

#PER CHI AMA: Psych-rock/Stoner, Hawkwind, Black Sabbath, The Grateful Dead
Comprate questo disco, ora: è un fottuto capolavoro. I romani L’Ira del Baccano, quasi tre anni dopo l’acclamatissimo 'Terra 42', sfornano questo 'Paradox Hourglass' che è in grado di muoversi agilmente tra il rock oscuro vecchia scuola dei Black Sabbath, lo space rock di Hawkwind e The Samsara Blues Experiment, il prog dei Rush e l’attitudine all’improvvisazione dei The Grateful Dead. Un lavoro solido e poliedrico, ricco di sfaccettature, composto da una lunga suite in due parti (per un totale di 20 minuti) e due brani mai sotto gli 8 minuti. “Paradox Hourglass Part 1 e 2” sono un inno heavy-prog, talmente ricco di riff, stili, cambi di atmosfera e livelli di ascolto da valere l’intero disco. Le chitarre di Santori e Malerba fabbricano sofisticati pattern, perfettamente a loro agio sia nelle sonorità più progressive (Part 1) che in quelle più heavy (Part 2). La sezione ritmica di Salvi e Bacchisio, solo apparentemente in secondo piano, colora con grande gusto ogni riff e passaggio, consapevole nel creare dinamiche e nel seguire i fraseggi delle due chitarre. “Abilene” è un frullato perfetto di attitudine jazz-prog e stoner rock, con una parte centrale (arricchita da tastiere e theremin) che vi proietterà nello spazio più ipnotico, per poi rituffarsi in sonorità heavy. Chiude “The Blind Phoenix Rises”, sensibilmente più lenta e doom delle precedenti — persino epica, in certi passaggi — ma nuovamente incredibile nella varietà e negli incastri di tempi, ritmi e riff. E sia chiaro: non c’è onanismo in questo disco, nessuna esagerata dimostrazione, nessun vezzo tecnico fine a se stesso — ogni singola nota viene suonata nel rispetto del brano e della personalissima visione musicale dei L’Ira del Baccano. Gli oltre 40 minuti di 'Paradox Hourglass' vi riempiranno cuore e cervello, e solo alla fine vi accorgerete che la voce non vi è minimamente mancata. Se credete che gli italiani sappiano fare solo pop, cantautorato noioso o repliche di repliche di indie (se ancora questa parola ha un senso) — beh, ascoltate 'Paradox Hourglass' e pentitevi. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 16 aprile 2014

Dogs For Breakfast - The Sun Left These Places

#PER CHI AMA: Progressive Hardcore, Mastodon, Unsane
Eccezionalmente particolare questo lavoro dei Dogs For Breakfast, trio di Cuneo dedito ad un genere difficilmente definibile, complementare di numerose influenze, non solo dal punto di vista compositivo ma anche sonoro, quel "un po' di tutto ciò che piace alla gente" che negli ultimi anni affolla le uscite della case discografiche, ma che i Dogs For Breakfast stilano con particolare personalità. Già dall'opener "January 21" rimango piacevolmente sorpreso: riff granitici, esplosioni di volume e ritmi ipnotici caratterizzano le tracce che scorrono piacevolmente nel loro complesso, più che trascinando, incuriosendo l'ascoltatore grazie all'alchimia realizzata dal combo piemontese. Non è la modaiola sequenza di parti sludge e wannabe-hardcore che colpisce, ma un disco costruito su solide tracce, capaci di ritagliarsi il proprio spazio rimanendo collegate nel complesso. Basti infatti ascoltare una composizione come l'allucinante "Tsaatan" o "Red Flowers", collegate grazie al filo di una rabbia interiore che trova il suo picco nella terza traccia senza titolo, ovvero un naufragio droneggiante dove viene urlato il titolo di quest'album, 'The Sun Left These Places'. Un'opera che nel suo complesso risulterà decisamente valida, riuscendo a portare in Italia delle sonorità approcciate solo da pochi nell'ultimo decennio. (Kent)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 75

domenica 13 aprile 2014

Lili Refrain – Kawax

#PER CHI AMA: Rock sperimentale, Dead Can Dance, Glenn Branca, Alan Parson
Ottimo debutto su SubSound Records della chitarrista e performer romana, Lili Refrain che con questo primo lavoro del 2013, dal titolo 'Kawax', si estrae dalla massa sfornando un album alquanto misterioso e mistico a cavallo tra Dead Can Dance e certa musica progressiva/sperimentale di qualità. Niente è inteso nella forma tradizionale del rock, dagli echi nei loop di chitarra che ricordano il The Edge di 'The Unforgettable Fire' in veste spettrale e post atomica, alle voci corali a metà tra i cori delle mondine e la sperimentazione chirurgica di un'altra mitica performer italiana, Stefania Pedretti meglio nota per il suo progetto solista, ?Alos. Non ci stancheremo mai di ripetere e sottolineare la forma ascensionale di questo gioiellino sonoro che in "Nature Boy" tocca l'epicità trascendentale del duo anglo-australiano composto da Lisa Gerrard e Brendan Perry, con una prova vocale degna della migliore Bjork intinta nel nero più oscuro e che oscilla di continuo tra le teorie sonore di Alan Parson e l'avanguardia di Glenn Branca, senza dimenticare un uso tribale delle percussioni e le escursioni acustiche dalla cristallina, ammaliante e decadente bellezza. Composizioni al limite del cinematografico e impossibili da classificare, gloriosi accenni di musica classica e, sparsi qua e là, sapori di canto lirico maestosi rendono le composizioni indescrivibili e senza tempo. I brani solo volubili e facilmente ci si può imbattere, ora in chitarre pesanti, ora in forme psichedeliche dal buon gusto progressivo in stile ultimi Yes e il tutto sotto i raggi del sole mistico di certa world music di classe. "Goya" è un brano altamente contagioso, una forma di plagio ai Rolling Stones di "Paint it Black", perfettamente riuscito e realizzato come se venissero ascoltati in un'altra galassia, e intrinseco in questa ruberia, troviamo anche un canto meraviglioso venuto a noi da un altro mondo. Quindi, diamanti sciamanici come "Tragos" o "666 Burns", brani dall'atmosfera tolta ai migliori incubi di David Lynch e dei Sunn O))), risulteranno imperdibili per chi cerca un approccio assolutamente libero verso la musica progressive d'atmosfera e la colta sperimentazione alchemica. Arrendetevi, non vi resta che ascoltarlo, ne vale assolutamente la pena! (Bob Stoner)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 85

The Orange Man Theory - Giants, Demons and Flocks of Sheep

#PER CHI AMA: Death/Grind, Brujeria
Al ritrovamento di questo album nella mia cassetta postale, ero particolarmente contento causa il fatto che in uno storico e defunto locale live del vicentino, trovavo perennemente in bagno il loro adesivo con sottoscritto "Satan Told me I'm Right" (ed un gruppo con uno slogan del genere non può che starmi simpatico). Dopo il primo approccio con questa loro opera però, ho cambiato decisamente la mia opinione. Ciò che mi rende più astioso l'ascolto di questo terzo album della band romana sono principalmente i suoni, causa una voce preponderante su tutto, un'infima chitarra ed un basso enormemente distorto; la produzione però non è scarna e zanzarosa, bensì freddamente chirurgica e molto (troppo) carente di basse frequenze, anche su volumi sostenuti. A ciò purtroppo si aggiunge l'impasto sulle frequenze causato dal basso e dalla chitarra che non permette di cogliere facilmente i tecnici fraseggi dei due, oltre che dalla batteria, resa estremamente secca dalla produzione, della quale però si riescono ad apprezzare pienamente i notevoli giochi ritmici. Dal punto di vista compositivo, le tracce sono per lo più rapide e grooveggianti, ad eccezione di "If I Could Speak", un sapiente mix di grindcore, death metal moderno, un pizzico di noise e strutture southern rock. Altro punto fermo del songwriting sono gli innumerevoli cambi di tempo e le adrenaliniche aperture che occupano l'opera nella quasi totalità. 'Giants, Demons and Flocks of Sheep' è un disco molto vario, che troverà terreno fertile tra gli amanti della musica estremamente movimentata ed aggressiva; personalmente, sarei molto curioso di vederli live con un buon impianto a supporto. Li aspetto. (Kent)

(Subsound Records - 2013)
Voto: 65