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Visualizzazione post con etichetta Metalgate Records. Mostra tutti i post
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martedì 9 febbraio 2021

The Corona Lantern - Certa Omnibus Hora

#PER CHI AMA: Sludge/Death Doom, My Dying Bride, Cult of Luna, Morbid Angel
Nati nel 2014 in quel di Praga come realtà post metal, i Corona Lantern tornano a cinque anni di distanza dal loro debut 'Consuming the Tempest'. 'Certa Omnibus Hora' è lo scoppiettante comeback discografico del quintetto ceco che propone sei nuovi pezzi che ne svelano la nuova anima. A rivelarlo è "As Wide Eyes Travel", traccia d'apertura di questo secondo capitolo, che mette in mostra un sound più slabbrato che abbraccia anche doom e sludge, toccando qua e là anche influenze più esterne. Sarà l'utilizzo diversificato di una voce (quella di Daniela "Dahlien" Neumanová) capace di muoversi tra un growl aspro e spoken words, di un suono costantemente ritmato dall'inizio alla fine del brano, e di un senso di oppressività che non lascia tregua per tutti i sei minuti e mezzo dell'opener, che persiste nel generare pensieri e tormenti nell'anima. Già diversa e più accessibile è la seconda "Through This Swamp of Oblivion", un brano che evidenzia altre peculiarità del sound dei nostri ma che con il suo incedere inquieto, sembra scandire il tempo che conduce alla fine della vita, perfettamente allineato peraltro con il titolo del disco, ossia l'ora della fine è certa per tutti. Una metafora, la linea e il senso dell'esistenza, la paura, la morte, tutte tematiche che lascio a voi il piacere di approfondire, sfogliando lo splendido libretto incluso nell'elegante cd della compagine ceca. Fatto sta che, per quanto cupa e pesante sia la melodia del brano, la trovo decisamente più ariosa dell'opener, con una linea di chitarra di facile presa che ci conduce anche nei meandri oscuri di un black fosco che per oltre dieci minuti ci condurrà fino alle porte della più funerea "Up the Last Hill". Questo è un altro brano che si muove più a rilento nel contesto musicale del disco, non fissando peraltro grossi punti di riferimento nel panorama doom, sebbene il suo sound possa essere accostabile ad un ipotetico ibrido tra My Dying Bride e Cult of Luna. Interessanti non c'è che dire, ma anche arcigni e ostici da digerire, quindi fate attenzione. Questo implica inevitabilmente un maggiore sforzo in sede di attenzione da dedicare alla proposta del quintetto, il che è piuttosto consueto quando ci si avvicina ad un genere complicato come questo. Con "Hours Between Heartbeats" il suono si fa più dinamico, complice un attacco più death oriented che si assesta su un'alternanza tra parti violente e altre più compassate e melodiche, in cui la melodia della sei corde fa da driver all'intero pezzo, non disdegnando in alcuni momenti anche aperture quasi progressive, per un finale che emula il battito cardiaco a svanire. Un bel giro di tastiere apre la più psichedelica "Make Me Forget", che quando attacca con le chitarre sembra pagare dazio a "Shades of God" dei Paradise Lost. E lo dico con un'accezione positiva, dal momento che ho amato alla follia quel disco. Certo, non siamo di fronte alla grandezza di quel masterpiece che l'anno prossimo compirà 30 anni però, la musicalità, il tremolo picking, l'alternanza ritmica e la prova convincente al microfono di Dahlien, ne fanno probabilmente il brano meglio riuscito del cd. Ma ne manca ancora uno all'appello, "The Truth and Its Will", con i suoi 10 minuti abbondanti di sonorità e atmosfere soffuse che sembrano coniugare nel modo migliore, scavalcando quindi in termini qualitativi la precedente song, quanto ascoltato sin qui in 'Certa Omnibus Hora'. Il brano mette in mostra le migliori melodie del disco, mi appaga in termini di malinconia, qui rilasciata a fiumi, ha dei riffoni di una pesantezza estrema quasi ci trovassimo di fronte ai Morbid Angel, e poi sublimi sono quelle sfuriate tipicamente blackish sul finire. Diciamo che rimane ancora qualche ingenuità da limare qua e là, necessaria per scrollarsi di dosso quell'alone eccessivamente "nineties" che sembra avvolgere l'intero album, ma la band è di certo sulla strada giusta per creare una propria identità che le permetterebbe di accedere ad un pubblico più vasto ed altrettanto esigente. Osare ancora di più please! (Francesco Scarci)

giovedì 26 novembre 2015

Postcards From Arkham - ÆØN5

#PER CHI AMA: Prog/Post metal/Atmospheric Rock
Ho sempre un moto d’invidia quando scopro che dietro album così lunghi e complessi c’è un solo uomo, in questo caso il polistrumentista ceco Marek Frodys Pytlik. Me lo immagino a comporre e suonare, traccia dopo traccia; e ancor prima, a pensare un concept come questo 'ÆØN5', ispirato interamente dai racconti oscuri di H.P. Lovecraft e E.A. Poe (che segue, per inciso, il precedente 'Oceansize' del 2012, incentrato sul culto di Cthulhu). Mi aspettavo molto quindi, con presupposti del genere, ma vi avviso subito, questo disco si è rivelato appena sufficiente. La musica anzitutto: le atmosfere oscure e autunnali sono rette da melodie tutt’altro che straordinarie – “Elevate” o “Woods Of Liberation”, con le dovute differenze stilistiche, sembrano scritte per il teen-pop-rock contemporaneo. Chitarre e tastiere sono protagoniste: le prime alternano distorsioni death e arpeggi ricchi di effetti (“Thousand Years For Us”) a lunghi solo; le seconde tessono le linee principali delle melodie, prediligendo strings asciuttissimi e piano elettrici ai synth. Un basso anonimo e una batteria, purtroppo, altrettanto poco curata (sia nei suoni che nelle partiture) completano il quadro. Sopra a questo tessuto metal-melodico, la voce di Marek racconta per contrasto un mondo di orrore, oscurità e mostri in attesa: monotona e cantilenante, ricorda più un reading di poesie oscure che un cantato vero e proprio, men che meno metal (salvo un paio di episodi in growling, vedi “Aeon Echoes”). La voce – per lo più piatta, profonda e cavernosa – crea una dissonanza inquietante con la struttura prettamente melodica della musica. Come se il compianto Peter Steel leggesse Lovecraft sulle strofe di “Wildest Dreams” di Taylor Swift. Un lavoro difficile da inquadrare: l’altalena di atmosfere ed emozioni, tipica del post-rock e del post-metal, si sposa con l’ambientazione horror e il parlato oscuro tipici di un certo metal scandinavo. Le tastiere e le lunghe parti strumentali e solistiche tuttavia, non possono non far pensare ad un prog-metal contemporaneo, pur non particolarmente tecnico e, anzi, piuttosto noioso quanto a scelte di tempo. La voce, vera nota originale di un disco altrimenti banale, che alla lunga si rivela persino troppo piatto. I Postcards From Arkham strappano la sufficienza solo grazie a qualche buona idea qua e là, ma soprattutto per gli incastri melodici di tastiere e chitarre.  Da risentire nella prossima fatica. (Stefano Torregrossa)

(Metalgate Records - 2015)
Voto: 60

domenica 10 novembre 2013

Minority Sound - The Explorer

#PER CHI AMA: Cyber Death, Fear Factory
Da Praga con furore; potrebbe essere questo il “titolo” della mia recensione. I motivi? Primo, perchè siamo alle prese con un quartetto di musicisti della Repubblica Ceca; secondo, questi quattro ragazzi sono piuttosto incazzati. Risultato: un disco spaccatimpani (alzando la manetta del volume non si rimane delusi), esempio di simbiosi tra elettro/industrial/techno e metal bello peso; non a caso loro stessi definiscono il progetto come elettrometal che, devo anticiparvelo per integrità morale e “professionale”, non ha mai riscontrato i miei favori. O per lo meno, in moltissimi casi, con le relative eccezioni. I Minority Sound incidono questo disco nel 2012 per la Metalgate Records, che provvede a confezionare il cd in un elegantissimo digipack; qualcosa dell'artwork mi ha richiamato alcuni lavori dei NIN di Trent Reznor, e qualcosa me li ha richiamati anche sotto un punto di vista musicale col passare delle tracce. Visto che siamo in argomento richiami: ce n'è uno, evidentissimo, che è quello con gli Amorphis versione 2.0 (da 'Tuonela' in poi per intenderci...) e per quanto mi riguarda, questo è un pregio. La musica qua prodotta, si snoda tra continui stop and go, intermezzi elettronici, ritmi a tratti discomusic, a tratti un tappeto di doppia cassa da far invidia ai migliori Fear Factory; chitarre “sintetiche”, voci pulite in alternanza con scream vocals contribuiscono a creare una sorta di “confusione ben organizzata” che però sembra non centrare in pieno il bersaglio. Nel complesso il disco resta sospeso, innocuo; sicuramente d'impatto (alzando il volume, la potenza c'è eccome...) perde qualche punto analizzando il songwriting vero e proprio. Non ci sono particolari momenti di esaltante bellezza, mi sento solo di citare la buona “Load of Destruction” potenziale singolo, per il resto tanto e tanto mestiere...ma inteso nel senso meno nobile del significato del termine; di gruppi che doppiano con riff stoppati i colpi di cassa, ce ne sono stati e ce ne sono ancora molti, forse troppi. Paventavo una ventata di qualità maggiore, non mi aspettavo grosse novità (non è il caso di aspettarsele in ambito metal oggi come oggi); il lavoro comunque ha delle frecce al suo arco: molto buoni i suoni, preparazione tecnica eccellente, “pesantezza” che pervade le composizioni e tira legnate belle forti, molto buone le voci “clean”. Disco che purtroppo rimane per appassionati veri del genere, ostico avvicinarvisi se non si ha dimestichezza col genere proposto. Parlando di 'The Explorer', mi sento di affermare che si tratta più di un'occasione persa che di qualcos'altro; devo però riconoscere che col passare degli ascolti il disco cresce, ma non finisce mai di impressionarmi in maniera positiva, evitando questo è certo, di scivolare nel baratro del fallimento più totale. Per questa volta, peccato. (Claudio Catena)

(Metalgate Records - 2012)
Voto: 65

http://www.minoritysound.com/