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venerdì 15 aprile 2022

TesseracT - Regrowth

#PER CHI AMA: Djent
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina spaventa il mondo. Le iniziative a sostegno dell'Ucraina però si stanno moltiplicando a vista d'occhio, anche in ambito musicale. Gli ultimi a darne esempio sono i TesseracT che hanno annunciato l'uscita di 'Regrowth', uno speciale "double A-side", come da loro definito, per raccogliere fondi per aiutare la gente ucraina e non solo, anche altre crisi umanitarie in giro per il mondo. E allora, anche se i brani sono solo due, ma è in arrivo un nuovo full length da parte dell'act inglese non temete, perchè non dare intanto una mano, contribuendo al sostegno della causa, e nel frattempo vi godrete un paio di pezzi nuovi in classico TesseracT style, ossia un djent di buonissima fattura, il cantato inconfondibile di Dan Tompkin, quel basso tonante scatenato in "Hollow" che avevo amato fin dal debut 'One', e quelle chitarre liquido-eteree che si palesano in "Rebirth". I TesseracT rimangono dei fighi, una versione decisamente più catchy dei Meshuggah, ma comunqueuna band che oltre ad essere fenomenale musicalmente parlando, ora si conferma anche estremamente intelligente. Ma non ne avevo dubbi. (Francesco Scarci)

mercoledì 24 aprile 2019

Blackfield - Blackfield IV

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Rock
Si porta malauguratamente a compimento il processo di de-Stefanerd-izzazione (di questo 'B-IV', S-W non firma nessuna canzone, né la produzione) e, parallelamente, si schiudono ancora un po' gli orizzonti musicali di questo 'Blackfield IV'. Sentite per esempio, con alternate fortune, le blande dissonanze liofilizzate che chiudono la più che discreta "Pills", oppure gli inopportuni campanelli natalizi di "X-ray" o, nelle melodie, una maggiore attenzione early-psych-beatlesiana ("Kissed by the Devil" e "Firefly"). Oppure ascoltate la giuliva crapuloneria pseudo-celtica della terribile ma divertente "Sense of Insanity", con uno svogliato S-W alla seconda voce, contemporaneamente riflettendo sul fatto che utilizzare Steven Wilson come seconda voce è un po' come usare Pelé come raccatapalle, oppure Glen Hughes come bassista. L'elemento di maggiore freschezza e novità sarebbe rappresentato dalle importanti ospitate (in "X-Ray" Vincent Cavanaugh degli Anathema, vi ricorderà un Paul Carrack disidratato in "The Sky With Diamonds"; in "The Only Fool is Me" – ma, accidenti, perché non in "Kissed by the Devil" – Jonathan Donahue dei Mercury Rev, vi sembrerà l'ex-giardiniere di John Lennon eccezionalmente di buonumore in una rara giornata di sole londinese; in "Firefly", Brett Anderson dei Suede, vi farà venire alla mente un attempato Gene Pitney che canta "Something's Gotten Hold of My Nose" alla prese con una insidiosa caccola recalcitrante) se soltanto fossero state integrate un po' più convintamente nella scialba (e cortissima) scaletta di questo quarto decadente album. (Alberto Calorosi)

(Kscope - 2013)
Voto: 58

https://www.blackfield.org/

martedì 8 maggio 2018

Anathema - The Optimist

#PER CHI AMA: Experimental Rock, Radiohead
Vostra nonna sa bene che se il sugo è un po' balordo, bisogna abbondare col soffritto. E sa anche che se viene a mancare l'ispirazione, l'artista avveduto abbonda col mestiere. Agli Anathema riconoscono anche i detrattori una formidabile versatilità stilistica (cfr. la notturno-strombettante coda simil-jazz di "Close Your Eyes", dove la ialina Lee Douglas trova stavolta la sua migliore dimensione), una crescente abilità atmos/tronica (le grossolane intemperanze EDM della introduttiva "Leaving it Behind"; le goffe j-m-jarrettate del pessimo strumentale "San Francisco", vagamente reminescente della comunque eccellente "Endless Ways") e soprattutto la capacità di creare certe emozionali-emozionanti progressioni intrise di tensione (di nuovo "Endless Ways"; il pianoforte che muta in chitarra elettrica nel narrare il tema di "The Optimist", inizialmente me-tapino-sospirante poi astutamente ed efficacemente progr/essiva; il manieristico quasi-interamente-strumentale "Springfield", avveduto primo singolo dell'album). Per tacere poi del tanto vituperato pop da classifica, saggiamente dosato, giusto per mettere al sicuro il risultato (cfr. gli Spandau Ballet abbagliati di "Can't Let Go" o la Enya che visita uno zuccherificio di "Ghosts"). Sarebbe stato avventato aspettarsi altro da questo. Ma di più, un poco di più, quello sì. Del tutto pretestuosi gli accostamenti ad 'A Fine Day to Exit', di cui questo 'The Optimist' sarebbe un sedicente sequel. (Alberto Calorosi)

giovedì 1 marzo 2018

Blackfield - Blackfield V

#PER CHI AMA: Progressive Rock
Distensivi (il singolo "Family Man" et molto al.) o corrucciati ("How Was Your Ride?" et poco al.) poppettini idroponici monocultivar seminati da Tel Aviv Geffen, arati a nido di porcospino da Steven King Wilson e incellofanati da Alan Prostatite Parsons, che vanno a costituire l'impronta di dinosauro di quest'album e, più in generale, dell'intera seconda reincarnazione Blackfield (da 'Welcome to My DNA' a questo 'Blackfield V' compresi: la ampiamente annunciata e pubblicizzata rinascita della partnership non è altro che una mozzarella di bufala). Torpidi lentoni 100% Blackfield-iani ("Sorrys", "October" et tantissimi al.), e qualche timidissima concessione progressive, cfr. l'ammorbidente in 7/8 erogato in "We'll Never Be Apart", oppure l'architettura traballante tardo(ne)-Yes di "Life is an Ocean", unica composizione firmata da entrambi gli spaventapasseri del Campo Nero. Ovunque, un registro narrativo (eccessivamente) patinato e trattenuto, nei testi (ascoltate il modo tristerello in cui A-G canticchia "my happiness" in "October") e nei contenuti sonori (cfr. "Lately", la canzone più tardo(ne)-Parsoniana dell'intero album) e, ahimè una diffusa, fragorosa mancanza di ispirazione. (Alberto Calorosi)

lunedì 1 settembre 2014

Anathema - Distant Satellites

#PER CHI AMA: Rock Elettronica, Radiohead
Gli Anathema come mai prima. Forse rinnovamento, forse cambiamento. Io direi che in questo album gli Anathema hanno il vello della fenice che rinasce dalle proprie ceneri. "The Lost Song, Pt 1". Abbandono. Essenza. Trovare e perdere. Ascolto rapita. Sonoritá sensibili a tratti sensuali, che trasudano sessualitá struggenti come se la voce divenisse carnalitá corporea. Incredibile la continuità che il primo brano trova nel secondo "The Lost Song, Pt. 2". Ora a farmi perdere non è piú una voce maschile, ma una donna dalla voce complementare al cantante del primo pezzo, così in tinta alla musica della band, da farmi sentire un tutt'uno con cielo e terra. Spezziamo questa alchimia per qualche minuto con "Dusk". Perdura la musicalità elettronica, convergono suoni vocali sussurrati e poi iperbolici, ma in "Dusk", a sorpresa si fondono le voci dei primi due pezzi. Se non è sensuale questo, ditemelo voi cosa lo è! Ho guardato il mare in tempesta. Ho sentito il sapore della terra bruciata dal sole. Ho fatto un tuffo in mare di notte. Ho visto chi guarda e chi non sa di essere guardato. Ho subito il tempo e poi con rabbia l'ho vissuto sino all'ultimo istante il tempo. Ecco "Ariel", che sussurra, a due voci, che racconta, che accarezza, induce, si allontana con la stessa dolcezza con cui è iniziato. Come un ballo alcolico in cui la mente è leggera ed il corpo si abbandona, ascolto "The Lost Song, Pt 3". Potete muovervi in un limbo che circoscrive bisogni ed alienazione. Ascoltate con gli occhi chiusi, ballando con la lentezza descritta da un mantra. "Anathema". Si. Si. Si. Si. Si. Ecco l'intro suonato, accattivante, ripetuto, che mescolato alla voce, ipnotizza, trascina, rende la volontá schiava di questo ibrido sonoro e vocale, come fosse un unico corpo misantropo, carismatico, invisibile, ombra alle luci della luna piena. La magia si spezza. Torno alla realtá con "You're not Alone". Brano alienante rispetto ai precedenti. Pretenzioso. Una confusione di suoni. Forse ci vuole per una pausa! Era solo un momento estroso, perché con "Firelight" gli Anathema, tornano a far danzare lentamente i fiori nel deserto. Ancora una volta i suoni sono puliti, armoniosi, metafisici, cosí delicati da far entrare piacevolmente in questo connubio di ritmiche seghettate in cui si intercala la solita voce dal testosterone avvolto di miele. Se prima ho abbassato le luci, ora le ho spente, per fare spazio al buio ed a questa "Take Shelter". Lenta. Carezzevole. Scorsa da effetti elettronici, piacevoli come una scossa al rallentatore, che si propaga sulla pelle. Sospiri. Improvvisi cambi di ritmo che continuano nella melodia. Scosse ancora. Un album che dovreste ascoltare in una notte di luna piena a picco sul mare o di fronte ad un camino mentre la neve frusta la vostra terra. (Silvia Comencini)

(Kscope Music - 2014)
Voto: 80

martedì 14 giugno 2011

Ulver - Wars of the Roses

#PER CHI AMA: Avantgarde, Ambient
Tornano gli Ulver con un prodotto nuovo di zecca, con una casa discografica nuova di zecca, la Kscope music, e l’ennesimo album in grado di stravolgere ogni regola in casa di Kristoffer Rygg (alias Garm) e soci. Si parte con “February”. Le sue ridondanze pulsanti richiamano il sangue dalle vene. Cuori adrenalinici, ipersaguigni, fibrillanti, si scagliano sulle casse dai volumi esagerati per farsi violare i timpani da questo primo brano. È un esordio audace, con un Garm in grande spolvero, non sufficiente però a compensare il trapasso a sonorità vagamente anni ’80, che fanno perdere il potere alla tribalità elettronica dell’inizio. Passo a “Norwegian Gothic” e mi ritrovo catapultata in mezzo agli alberi sul fare della sera. Cammino tra i fuochi che si spengono intorno a case abbandonate. Il senso di inquietudine mi avvolge per amplificarsi in quelle che credo siano urla segregate tra mura di castelli medievali. La voce si conferma di grande spessore, vorticosa e ritmata, mentre vertigini strumentali pregnano l’ascolto di questo secondo pezzo, a cui non si può negare d’essere assai evocativo. È la volta di “Providence” dove accanto alla calda tonalità del vocalist compare l’eterea voce di Siri Stranger, in una cavalcata emotiva in cui trovano posto improbabili violini, un infausto clarinetto e Attila Csihar come guest star nella parte vocale. Parte la musica di “September IV”. L’ascolto. Mi fermo. Controllo che il brano sia del cd che sto ascoltando. Le sonorità sono diverse dalle altre tracce. La voce morbida e penetrante, gli stacchi più sensuali e decisi, con il sound che richiama una danza rituale, una promessa, un grido. Coinvolgente. Ecco “England” e l’atmosfera fattasi più rarefatta, mi spinge alla spasmodica ricerca di ossigeno. L’aria è frustata da onde sonore imperfette. Il cantato di Garm si fa dominante, rabbioso, ripetitivo, quasi robotico, con le parole aggrovigliate su se stesse, imprigionate tra distorsioni e percosse a casse inermi. Il brano si rivela antidoto ideale per pulsante rabbia repressa. Le melodie suadenti e disturbanti emergono forti in “Island”, song che fa riaffiorare il passato ambient della band norvegese, prima della lunga conclusiva “Stone Angel”. L’inizio del brano mi proietta davanti ad uno specchio al buio, mentre attendo che la luce di una candela possa presto illuminare la stanza. Il prologo di suoni, lo specchio, si interseca ad un parlato, quello di Daniel O’Sullivan che interpreta un testo del poeta americano Keith Waldrop. Gli occhi continuano a puntare lo specchio nella tragica inevitabilità di guardare se stessi. Risultante, un ipnotico viaggio al centro delle proprie paure. Finisce qui il nuovo album targato Ulver, ora a voi il compito di ascoltarlo e descriverne le suggestioni che vi affioreranno. Da ascoltare ad occhi chiusi. (Silvia Comencini)

(Kscope)