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lunedì 1 gennaio 2024

Borgarting - Beist

#PER CHI AMA: Black Metal
La Dusktone deve averci preso gusto ad arruolare band norvegesi nel proprio roaster, pensando forse di trovare quella band che le permetta di fare il salto di qualità, un po' come fondamentalmente fanno anche le squadre di calcio quando cercano nuovi talentuosi piccoli Messi in Sud America, sperando nel colpo gobbo. Cosi, anche l'etichetta nostrana, setacciando tutto il sottosuolo norvegese, ha fatto saltar fuori questi Borgarting, che arrivano al loro secondo album. 'Beist' è un esempio di black mid-tempo, anche se l'introduttiva "De Skyldige" è piuttosto una noiosissima nenia. Poi, a partire da "Allfar", emergono forti le influenze nordiche di band del calibro di Khold o Satyricon, tra gelide chitarre zanzarose, una parvenza melodica, delle vocals che sembrano evocare gli Enslaved e quanto di "alternativo" la scena black norvegese ha provato a rilasciare in passato. Non siamo ai livelli di intoccabili mostri sacri, ma le song scorrono via veloci tra schitarrate rancide che odorano di black thrash old school ("Hat"), grim vocals, porzioni più melodiche e atmosferiche ("Mer"), che provano a stemperare le dissonanze sonore di influenza "satiriconiana", periodo 'Rebel Extravaganza' che ritroviamo nelle note dei nostri. Ma poi, la sensazione che respiro dopo quest'immersione nel mondo dei Borgarting è un po' deludente, visto che alla fine dei conti, non ho sentito nulla di originale, ma solo un disco ben suonato, e poco più, che per carità, è già tanta roba in un periodo in cui bandcamp e affini, permettono a chiunque di dare il proprio contributo (talvolta pessimo) a un mondo musicale che sembra si stia accartocciando su se stesso. Comunque, quello del quintetto norvegese è alla fine un discreto lavoro, di lontana matrice black'n'roll, giusto per sottolineare una sorta di sperimentazione nelle note di 'Beist'. Bravini, ma i nuovi Messi si contano sulle dita di una mano. (Francesco Scarci)

lunedì 11 dicembre 2023

Flukt - Omen ov Darkness

#PER CHI AMA: Black Old School
Siete dei nostalgici del famigerato true black norvegese e bramate di ascoltare nuovi capolavori devoti al maligno, e provenienti dalle lande innevate della Norvegia? Beh, eccovi accontentati con il secondo disco dei Flukt, 'Omen ov Darkness', che vi riporterà ai fasti del black metal di metà anni '90, quando impazzavano le chiacchiere da bar sulle chiese incendiate, la rivalità tra alcuni individui della scena, e, più importante, il forgiarsi di splendide band estreme. Ecco, erano gli anni '90, 30 anni fa, i Flukt arrivano fuori tempo massimo con un disco che sicuramente trae linfa vitale da quella gente, prova a infilarci un pizzico di idee, giusto per non farsi sgamare troppo nell'aver scopiazzato a destra e a manca dai vari Gorgoroth, Mayhem e compagnia cantante (ci sono anche influenze derivanti dal black svedese, Dissection e Setherial in testa) e spera di farsi notare in una scena brulicante di dischi come questi. Non mi hanno preso questi Flukt, mi spiace, io che sono cresciuto musicalmente a fine anni '80 inizi dei '90, quindi quanto contenuto in questa release per me, sono solo sonorità stra-abusate e alla fine anche noiose, che non trovano, ahimè, il mio benevolo appoggio. Certo, se siete dei fan incalliti della fiamma nera dell'ultima ora beh, allora qui troverete tutto quello che fa per voi: screaming vocals, tributi ai Darktrone ("He Who Must Not Be Named"), chitarre incendiarie ("Falt Fra Himmelen") e addirittura una terribile copertina, proprio in linea con la tradizione true black. Onesti (speriamo) ma ormai sorpassati. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone Records - 2023)
Voto: 60
 

sabato 29 agosto 2020

Black Hate - Altalith

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Deathspell Omega, Melechesh
Son passati ben otto anni da quando scrissi dei messicani Black Hate. Era il 2012 e il lavoro in questione 'Los Tres Mundos'. In mezzo, prima di questo 'Altalith', 'Through the Darkness', nel 2016, sempre per Dusktone. Il nuovo lavoro del quartetto di Città del Messico, ci conduce ancora una volta nei meandri di un sound oscuro e malato che da sempre contraddistingue i nostri. L'incipit, affidato alle percussioni di "The Gathering", sembra uno spaventoso rituale di morte azteco. Poco più di 90 secondi di suoni inquietanti che ci introducono alla follia sbilenca di "Hur/nin\ki-sag", caratterizzata da chitarre disarmoniche, ritmiche che rasentano il delirio e voci graffianti, il tutto deprivato però di una componente melodica. La song vede la partecipazione in veste di guest vocalist di Antithesis Ignis, compagno di merende negli Andramelech del frontman dei Black Hate B.G. Ikanunna; e nella song compare anche Antimo Buonanno (Hacavitz, Profanator tra gli altri) che dà il suo contributo a voci e cori. Un brevissimo intermezzo ambient e tocca a "Ir./Kalla", che ci conduce nell'antico e sotteraneo mondo mesopotamico con un sound finalmente ispirato, ove fa la sua apparizione il terzo ospite del disco, Paulina Suastegui, alla voce. La musica qui sembra ispirarsi ad un altro filone, quello mediorientale, con Melechesh e Arallu in testa, grazie all'utilizzo di quelle melodie orientaleggianti (corredate anche dalla soave voce femminile di Paulina) che caratterizzano il sound delle due band israeliane, senza comunque rinunciare alle tipiche sfuriate black. Un altro intermezzo e la strada verso la purificazione, secondo la tradizione sumera descritta in questo 'Altalith', fa tappa con "Nin\ ki /en-mhah", un brano stralunato, evocativo e cerimoniale, che miscela ancora una volta un black vorticoso con lontane contaminazioni progressive. L'ennesimo intermezzo tribale e si arriva a "Altalith-jamediu", un pezzo non semplicissimo da digerire che si muove su un mid-tempo schizzato che sembra chiamare in causa gli ultimi Deathspell Omega, soprattutto nella seconda parte dove il ritmo s'infervora notevolmente, muovendosi tra furiose accelerazioni e rallentamenti da incubo, per il più classico degli stop'n go. In chiusura “Bleed 17-09”, che vede alla voce il featuring di Kim Carlsson degli Hypothermia, sembra consegnarci una band completamente diversa da quanto ascoltato sin qui grazie ad un sound inizialmente più atmosferico, ma comunque slegato da quegli influssi mediorientali apprezzati in buona parte del disco. La lunga traccia nei suoi 10 minuti e più, vede un'alternanza di momenti più nervosi e votati al depressive black di Lifelover o Burzum, con altri decisamente più delicati e sofisticati che la eleggono comunque a mia song preferita del disco. In definitiva, 'Altalith' è un disco complesso, di difficile assimilazione che necessita di molteplici ascolti per essere goduto per quel che realmente è. Ci vuole pazienza e perseveranza ma alla fine verrete premiati da una prova dotata di una certa maturità artistica. (Francesco Scarci)
 
(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

mercoledì 5 agosto 2020

Anamnesi - Caurus

#PER CHI AMA: Death/Black
Torna Emanuele Prandoni con il suo progetto solista Anamnesi e il quinto album in carriera per la creatura dell'artista sardo. 'Caurus', il titolo del nuovo disco, si rifà (presumendo dalle liriche del cd) al vento di Nord Ovest chiamato dai romani Corus. Un inizio introdotto da una voce narrante, di scuola In Tormentata Quiete, racconta la storia di un naufrago come se si trattasse di un audiolibro, creando un certo pathos ed interesse nei confronti della storia narrata. Questa sorta di intro occupa quasi tre minuti che cedono poi il passo a "Caurus I" che presenta le coordinate stilistiche su cui si muove il factotum italico, che ricordo essere membro di una serie infinita di band, tra cui Simulacro, Progenie Terrestre Pura e prossimo ad esordire come vocalist nel nuovo disco dei Dawn of a Dark Age. Da un artista cosi poliedrico è lecito aspettarsi davvero parecchio e le attese non sono deluse visto che nel brano, cosi come in tutta la release, confluiscono suoni estremi (tipicamente black/death), frammiste a partiture più classicheggianti. Quello che amo di questo genere di progetti è poi l'utilizzo di testi in italiano, peraltro piuttosto comprensibili, nonostante l'utilizzo di un cantato che si avvicina ad un growl ma che in realtà non raggiunge mai vette di disumanità. Questo agevola la possibilità di seguire il filo conduttore che lega i vari brani della release sebbene si sottolinei come 'Caurus' non sia un vero e proprio concept album. Le song condividono banalmente le stesse radici figurative, rappresentate dagli elementi vento, acqua e terra, usate qui come metafore per descrivere la bellezza, i legami e i confini che la Sardegna può rappresentare. Approfondite ulteriormente le tematiche del disco che parlano ancora di amore, dolore, coraggio, oscurità e luce, il lavoro prosegue su ritmiche serratissime, sciorinando, uno dopo l'altro, pezzi che vedono come elemento comune un drumming imponente e delle chitarre assai taglienti, interrotte qua e là da cambi di tempo o break atmosferici, come accade nella già citata "Caurus I", dove il polistrumentista utilizza anche una sezione d'archi, oppure in "S'enna e S'arca" o nella successiva "Caurus II", forse i miei pezzi preferiti. A chiudere il disco ecco la seconda parte di "Memorie di un Naufrago', a narrare per quasi nove minuti, la burrasca che infuria sull'imbarcazione del naufrago che abbiamo incontrato in apertura e i pensieri di morte che lo colgono negli attimi in cui sta lottando per la vita. 'Caurus' alla fine è una release davvero devastante che rispetto al precedente 'La Proiezione del Fuoco' sembra aver perso quel quid folklorico a favore di una maggior monoliticità e violenza del suono. Sebbene abbia preferito la band nel precedente lavoro, mi sento comunque di affermare che 'Caurus' sia un disco compatto e di sicuro interesse, che merita certamente una chance d'ascolto. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2020)
Voto: 70

https://dusktone.bandcamp.com/album/caurus

lunedì 3 agosto 2020

The Bishop of Hexen - The Death Masquerade

#PER CHI AMA: Symph Black, Cradle of Filth, Carach Angren
Un silenzio durato otto lunghi anni, rotto solamente dall'incantesimo di un singolo rilasciato a inizio 2020. Eravamo rimasti infatti al 2012 quando uscì l'EP 'A Ceremony at the Edge of a Burning Page', che sembrava una sorta di canto del cigno per la band israeliana. Poi la svolta, una vera e propria sorpresa, i Bishop of Hexen firmano per la nostrana Dusktone Records ed è storia di oggi l'uscita di 'The Death Masquerade'. Otto nuovi pezzi, di cui il primo è in realtà una intro, che ci restituiscono una band che non ha perso lo smalto dei tempi migliori, continuando ad essere alfieri di un black sinfonico che si rifà ai classici del passato, penso a Cradle of Filth e Dimmu Borgir su tutti. E "A Witch King Reborn" è li a testimoniarlo, proprio con una fortissima influenza proveniente da Dani e soci, con quella capacità di fondere un black bombastico dal sound orchestrale, a tratti vampiresco e goticheggiante, ricco di melodie, vocals malignee (ma non mancano pure i vocalizzi puliti) e ottimi arrangiamenti. Mi fa piacere che il quartetto di Tel Aviv sia tornato, è un'altra arma a favore dello sterile black sinfonico che ha popolato la scena in questi anni. "Of Shuttering Harps & Shadow Hounds" ha un inizio in stile cinematografico come amano tanto sfoggiare i Dimmu Borgir, conferendo grande spazio a pompose orchestrazioni e grottesche atmosfere (stile Arcturus), senza rinunciare comunque a graffianti linee di chitarra, per un risultato alla fine di assoluto impatto, che anche a livello solistico non si sottrae dal proporre interessanti soluzioni. Anche la successiva "Death Masks" si muove sugli stessi paradigmi sonori non rinunciando all'utilizzo (talvolta oserei dire abuso) di tastiere che costruiscono l'architettura di un sound che poggia proprio su un black mid-tempo cinematico che non disdegna sporadiche accelerazioni o un drumming forsennato. Il disco prosegue su questi stessi binari, offrendo incipit che sembrano derivare da soundtrack di colossal cinematografici ("All Sins Lead to Glory" ne è un altro esempio lampante) o riportando suoni e voci che descrivono ancora una volta scene di film ("The Jester's Demise"). L'evoluzione è poi sistematica verso lidi musicali che evocano un altro grande nome della scena degli ultimi anni, i Carach Angren, anche se forse in 'The Death Masquerade' l'utilizzo delle keys è assai più corposo rispetto agli olandesi. A chiudere il cd, dopo la penultima e più aggressiva "A Thousand Shades of Slaughter", ecco i sinistri tocchi di "Sine Nomine", l'ultimo operistico atto di un graditissimo comeback discografico di una band che davamo ormai morta da anni. I Bishop of Hexen sono tornati, con loro si riapre la possibilità di dar più voce ad un genere relegato a vera e propria nicchia musicale. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2020)
Voto: 75

domenica 21 luglio 2019

Old Forest - Black Forests of Eternal Doom

#PER CHI AMA: Black Doom, Agalloch
Ormai la Dusktone è un'etichetta dall'ampio respiro internazionale con nomi di una certa fama consolidata nel proprio roster. Tra gli ultimi a fare ingresso nella label italica, ci sono gli anglo-norvegesi Old Forest che avevo parecchio apprezzato nel precedente cd 'Dagian', uscito nel 2015 sotto l'egida dell'Avantgarde Music. Dopo quattro anni, il terzetto di base a Londra, che per chi non lo sapesse include membri di Ewigkeit (Mr. Fog) e In the Woods (l'ultimo entrato Kobro alla batteria e Mr. Fog stesso), torna con quest'ispiratissimo 'Black Forests of Eternal Doom', contenente sei nuovi pezzi. Si parte dalle ormai consuete atmosferiche melodie di "Subterranean Soul", ove a farla da padrone, oltre ad un chitarrismo epico e nero, sono le vocals del buon Mr. Fog (qui col nome di Kobold), riconoscibilissimo sia nelle parti pulite che nel suo screaming ferale. Le ritmiche sono tirate ma ariose, complici le azzeccate melodie delle tastierone del factotum Kobold che affiancano il nervoso tracciante sostenuto dalla porzione di chitarra/basso di Beleth e dall'estenuante drumming di Kobro, uno che ha suonato anche in Carpathian Forest, Blood Red Throne e Green Carnation, quindi non proprio l'ultimo dei pirla. Le atmosfere si fanno ben più magiche nella seconda "Wastelands of Dejection", sebbene i ritmi siano sempre tesissimi, ma l'abilità dei nostri sta nell'alternare egregiamente momenti veloci, ove a dettar legge c'è lo screaming arcigno di Kobold, con altri decisamente più compassati e atmosferici (al limite del doom), con il frontman a cantare in veste pulita, come fatto nell'ultima release degli In the Woods o nella miriade di band in cui ha militato o di cui è unica mente solista. Il disco mi piace, non c'è che dire, e la forte componente di pathos che aleggia nelle sue corde, non fa che amplificare questo mio godimento interiore. È il caso della terza song, la title track, forse il brano più meditativo del disco, complici quelle sue melodie ipnotiche nella seconda metà, col black relegato totalmente in secondo piano, e con influenze derivanti dal doom e dall'ambient, che lentamente s'insinuano nel sound dei nostri. Difficile etichettare con esattezza la proposta dell'ensemble, visto che si possono riscontrare idee derivanti da act quali Agalloch, Novembers Doom e pure Negura Bunget. Forse per questo li apprezzo, perchè in qualche modo hanno rimpiazzato la mancanza dei primi e degli ultimi, che hanno pensato male di ritirarsi dalle scene. Niente paura, ora ci sono gli Old Forest a riempire le vostre giornate, sperando solo di non dover attendere quattro anni tra un'uscita e l'altra. "Shroud of My Dreams" è un bellissimo pezzo semi acustico che da solo vale per cosi dire il prezzo del biglietto, struggente e malinconico quanto basta. Siamo nei pressi di un black doom con "A Spell upon Thee" che può evocare per certi versi il debut degli In the Woods stessi o qualcosa dei primi Green Carnation, comunque retaggio degli artisti inclusi in questa straordinaria band, che ha ancora nella conclusiva "Hang'ed Man" l'ultima eccellente cartuccia da sparare. Un altro pezzo intimista che richiama il nero e flemmatico folklore degli Agalloch. Bene cosi. (Francesco Scarci)

lunedì 8 luglio 2019

Dekadent - The Nemean Ordeal

#PER CHI AMA: Black/Death/Doom/Prog
Era il 2015 quando approcciai per la prima volta gli sloveni Dekadent, con il loro brillante lavoro intitolato 'Veritas', uscito peraltro autoprodotto. Come al solito, di acqua sotto i ponti ne passa parecchia in quattro anni, la band si è fatta conoscere anche al di fuori dei loro confini nazionali e da li al finire sotto osservazione da parte di un'etichetta discografica di un certo rilievo, il passo non è stato poi cosi lungo. La nostrana Dusktone Records infatti ha notato il quartetto di Ljubljana e credo non ci abbia impiegato poi molto a capire le potenzialità dei nostri e io non posso che esserne felice dato che avevo parlato benissimo della compagine a quei tempi (comprando peraltro l'intera discografia della band). Ed ora, in occasione del loro comeback discografico, torno ad esaltare le doti dei quattro musicisti guidati da Artur Felicijan. 'The Nemean Ordeal' è infatti un signor album, il quinto per i Dekadent, che confermano il pedigree della precedente release, andando quasi a fare meglio. Dopo la consueta intro, ecco accendersi le sinfonie magnetiche dei nostri con "Shepherd of Stars", un brano che, dalla robustezza della ritmica, al clangore delle chitarre soliste, passando attraverso le sue splendide melodie malinconiche affrescate dalle tastiere ed i vocalizzi del buon Artur, se non è perfetto poco ci manca, anche laddove accelera spaventosamente con un riffone di scuola Morbid Angel. Pelle d'oca, non aggiungo altro e sono passati solo cinque minuti scarsi. Ora li voglio alla prova del fuoco, con gli undici maestosi minuti di "Solar Covenant", un pezzo che parte in modo delicato, e persiste nel generare soffici emozioni di struggente godimento lungo i binari di un death doom emozionale sporcato di influenze più propriamente post-metal che arricchiscono il patrimonio musicale di questa esaltante realtà che spero quanto prima, possa raggiungere i risultati che merita. A me, parliamoci chiaro, i Dekadent piacciono parecchio e non lo scopro certo oggi. Sta invece a voi avvicinarvi senza remore alla band e farvi abbracciare dal suono avanguardista, progressivo, sinfonico, atmosferico, doomish, death, black e qualsiasi altra cosa ci vogliate sentire; non esitate, immergetevi nel sound sofisticato dei nostri che sembra avere cosi tante cose da dire, da lasciarmi quasi senza parole. "Wanax Eternal" è gioia per le mie orecchie: a parte la produzione spettacolare, è il gioco combinato di chitarre, keys e voci, a catturare definitivamente la mia attenzione in un lento incedere tra chiaroscuri temporaleschi e al contempo gioiosi che mi fanno sorridere, un attimo di gioia a pensare che ci sono ancora album in grado di solleticare amabilmente i miei sensi. I Dekadent ci riescono appieno anche con il trittico conclusivo formato dalle song "The Lavantine Betrayal", una traccia la cui essenza è vicina ad un caleidoscopio di profumi, colori ed aromi, con i nostri ad infrangere ogni regola, qualora ne esistessero, in ambito musicale. Vicini ad un che degli Akercocke, i Dekadent proseguono lungo la loro strada con esplosioni astrali e divagazioni prog. "Escaping the Flesh So Adamant" è il furioso pezzo black metal che non ti aspetti, dopo aver ascoltato cotanta meraviglia; sapete una cosa però, è la furia che non ti aspetti rivisto nella sua sprezzante originalità che assembla e disintegra suoni, percezioni e certezze, il tutto in pochi minuti. Si arriva cosi alla fine del sogno con l'intrigante title track, gli ultimi otto minuti che mettono insieme questa volta la roboante pesantezza dei Morbid Angel, la creatività dei primi Nocturnus, la follia degli Akercocke con la freschezza del post-metal, la vena sinfonica dei Dimmu Borgir, l'epicità il tutto riletto dall'immensa personalità di questi quattro musicisti sloveni. Per me 'The Nemean Ordeal' è già entrato nella top 3 dell'anno e se non ci saranno altri contendenti a rubargli uno dei tre gradini del podio, rischiano seriamente di stare in quello più alto. (Francesco Scarci)

mercoledì 6 marzo 2019

Hanormale - Reborn in Butterfly

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Pensees Nocturnes
Nomen omen, il moniker Hanormale dice tutto, ossia che un sound del tutto normale non è proprio lecito aspettarselo da questo 'Reborn in Butterfly'. D'altro canto avevo già intuito dal precedente '天照大御神' che il bravo Arcanus Incubus non è personaggio del tutto convenzionale, vista peraltro la sua militanza in band altrettanto peculiari quali Mystical Fullmoon o Deviate Damaen, tanto per citarne alcune. Il terzo disco degli Hanormale si apre all'insegna del delirio sonoro ossia con una sorta di rifacimento della colonna sonora di Twin Peaks (quella a cura di Angelo Badalamenti), con quel motivetto di Laura Palmer, incastonato in una paurosa sfuriata black ("It's Happening Again"). Poi quando "Like a Hug, Darkness Embrace Us All" irrompe col suo fare jazzato, sperimentale e spericolato tra partiture etniche, prog e black, non si può che rimanere disorientati e godere appieno della fantasia e dell'imprevedibilità compositiva del musicista milanese qui supportato da una serie infinita di ospiti provenienti da molteplici band (Mechanical God Creation, Orcassassina, Deviate Damaen), da due batteristi (Mox Cristadoro e Marco Zambruni), un sax, un violoncellista e un didjeridoo. Che 'Reborn in Butterfly' sia album originale si evince dall'alternanza di stili musicali in esso contenuti, ma attenzione perchè questo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. In effetti con "Human" sprofondiamo in una sorta di funeral doom cosmico e nebuloso, che solo nel suo finale accelera a dismisura, sforando in una specie di annichilente grind isterico e controverso. Sebbene mi faccia sorridere il titolo "Satan is a Status Symbol", il pezzo inizia col malinconico tocco di violini e un mood che si conferma navigare in un versante decisamente più mansueto e inusuale per i nostri, almeno fino a quando esplode il feroce chorus che dà il titolo al brano, e la musica sghemba che ci sta attorno, con tanto di sax e violini di sottofondo. Ma le sorprese sono sempre dietro l'angolo e la song va a scemare tra clean vocals ed atmosfere soffuse. Non proprio quello che ci riserva la successiva "Ghettoblaster Black Metal", un brano che potrebbe tranquillamente stare su uno dei dischi più blasfemi degli Impaled Nazarene con ritmiche all'insegna di una crudissima carneficina. "Haguzosu" mescola ancora le carte in tavola, proponendo un sound più votato ad un obliquo prog/post rock, dotato di ispirate venature black. "Candentibus Organis" ha la peculiarità di avere testi in latino, mentre il suo sound sembra quello del vento che attraversa le campane di legno orientali, intervallate da sgroppate black e solenni (e spiritualistici) momenti, atti per lo più a confermare quanto possa essere suggestiva la proposta del folle mastermind italico. "Rare Green Areas" è la narrazione di una storia da parte di Gab dei Deviate Damaen, in una sorta di ibrido tra gli Aborym di "Psychogrotesque IV" e i Deviate Ladies di "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia!", dotato di un finale industrial da paura. Con "Al Tanoura" mi sembra di aver a che fare con i deliri sonori ed incontrollati dei Pensees Nocturnes dell'ultimo 'Grand Guignol Orchestra', con la sola differenza che gli Hanormale sono decisamente più ostici da digerire. "Iperrealismo" ci conduce nei meandri del dark ovviamente contaminato da un black truce che viene spezzato ancora una volta da un break di free jazz sperimentale che chiama in causa le sublimi divagazioni sonore di 'Knownothingism" dei Thee Maldoror Kollective. Ancora risvolti soft jazz questa volta con i tocchi di pianoforte e batteria di "The Search for the Zone" in un brano (forse il migliore del lotto) in cui convoglia un po' tutta la strumentazione alternativa della band (qui il violino è fantastico, quasi a emulare le melodie dei Ne Obliviscaris) e in cui il black trova nuovamente sfogo nel folle rincorrersi delle caustiche chitarre della band e nel disumano screaming del vocalist. Questo gioiello di musica estrema si conclude con "Requiem for Our Dead Brothers", un outro di solo pianoforte, un malinconico arrivederci che suggella l'enorme comeback discografico degli Hanormale. (Francesco Scarci)

lunedì 25 febbraio 2019

Gorgon - Elegy

#PER CHI AMA: Symph Black, Dimmu Borgir, Septicflesh
Di precedenti in Francia in fatto di black sinfonico ce ne sono parecchi, penso a Destinity, Anorexia Nervosa e Malevolentia, tanto per buttare li qualche nome. Oggi si fanno strada anche i parigini Gorgon, nonostante un full length di debutto, 'Titanomachy', già all'attivo, che però poco aveva fatto breccia nei cuori degli amanti del genere. 'Elegy' invece, un concept album sulla correlazione tra la creazione dell'Universo e la formazione dell'embrione nell'utero femminile, edito peraltro dalla nostrana Dusktone Records, non deve affatto passare inosservato perché la sua qualità è veramente eccelsa. Non solo per ciò che concerne le liriche e il dualismo tra scienza e spiritualità, ma soprattutto a livello musicale. "Origins" infatti esplode veemente nelle mie casse, sfoderando una classe cristallina, atmosfere bombastiche con richiami orientali ed eccellenti arrangiamenti che rappresentano probabilmente il punto di forza del quartetto transalpino. Gli ingredienti del black metal sinfonico ci sono tutti, tra bordate ritmiche sparate a tutta forza, growling vocals, montagne di tastiere (un plauso va al finlandese Felipe Munoz dei Frosttide) che rendono il tutto tremendamente orchestrale (ma in questo i Dimmu Borgir sono i veri maestri) ed un gustoso innesto di chitarre arabeggianti che per certi versi mi hanno evocato i primi Orphaned Land o i Melechesh più melodici. Addirittura in "Under a Bleeding Moon" compaiono in sottofondo anche delle eteree female vocals (a cura della tunisina Safa Heraghi, che ha collaborato con gente del calibro di Devin Townsend e Dark Fortress), in un brano che ha un approccio ritmico molto vicino alle ultime cose prodotte dai Septicflesh. L'avvicendamento dei brani è assai fluido e lineare e si passa senza alcun intoppo da un pezzo all'altro, attraversando le magniloquenti ed esoteriche melodie di "Nemesis", che vanta una parte centrale che appare più vicina ad una colonna sonora di un kolossal piuttosto che ad un disco metal. Infatti qui l'utilizzo delle partiture sinfoniche è più ricercata, talvolta forse un po' troppo spinta, però decisamente efficace. A tal proposito ascoltatevi "The Plagues", un vero inno di pomposità sinfonica che gli amanti del genere apprezzeranno enormemente (il sottoscritto ha goduto un casino), mentre per chi non ama questo genere di contaminazioni, potrebbe essere un problema. Io però vi suggerirei di dare una grossa chance ai Gorgon, sono convinto che non ve ne pentirete. E se avete ancora dubbi, ecco che in soccorso arrivano altri brani: la più oscura "Into the Abyss", con le voci della brava singer nord africana in background a smorzare la ferocia del frontman Paul Thureau, in uno sciame ritmico di black metal maestoso. "Ishassara", la song scelta come singolo lo scorso anno, conferma le ottime credenziali della band, abile sia nelle parti più tirate in blast beat, in cui il riferimento principe è rappresentato dagli ultimi Behemoth, che nelle parti più orchestrali, con tanto di utilizzo di ottoni e archi (ribadisco il concetto del Dimmu Borgir docet, a cui aggiungerei anche un pizzico di Therion) e a livello solistico, io ci sento anche influenze heavy classiche e power metal (stile Children of Bodom). "Of Divinity and Flesh" ci conduce ancora nei souk arabi con la sua tribalità orientale, a cui ben presto si accoderanno anche le serratissime ma intense chitarre black sinfoniche. A chiudere 'Elegy' arriva la suadente title track, gestita alla grande dal solo mellifluo canto della sirena Safa. Signori, ecco quel che si dice un signor album. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2019)
Voto: 85

giovedì 21 febbraio 2019

Kvalvaag - Seid

#PER CHI AMA: Symph Black, primi Dimmu Borgir
Dalla Norvegia con furore. Eccolo il comeback discografico, il terzo, dei blacksters Kvalvaag, intitolato 'Seid'. Fuori per la nostrana Dusktone Records, i due scafati musicisti di Oslo (sono infatti anche membri di Troll, Astaroth e Dødsfall) ci propinano un black metal dalle tinte orchestrali, sulla scia dei primi Dimmu Borgir. Sette i pezzi per quasi 40 minuti di musica che si materializzano con l'opener "Mare" e le sue spettrali tastiere introduttive che ci lasciano intuire la proposta del duo scandinavo. Presto detto e si scatenano le ritmiche selvagge su cui s'innesta lo screaming arcigno di Kvalvaag e le sue diaboliche keys che guideranno l'evolversi del brano in un vortice di blast beat che ci riporta in mente i suoni degli anni '90 (penso ai Bal Sagoth), edulcorati però da epici cori. Non male, anche se mi verrebbe da dire che siamo fuori tempo massimo, ma nell'ultimo periodo stiamo assistendo a questa rinascita (o riesumazione, chiamatela come vi pare) del black sinfonico, quindi godiamoci quanto di buono compare sul mercato. "Nattegrøde" potrebbe evocare un che di 'For All Tid' dei Dimmu Borgir: il sound è crudo e secco, cosi come la voce del frontman norvegese, ma le tastierine in sottofondo hanno sempre un certo effetto catalizzante. Non aspettatevi però grandi invenzioni, questi sono stati ormai proposti già 25 anni fa. "Volvesang Om Undergang" è devastante, il classico treno impazzito, deragliato e spinto a tutta forza fuori dai binari, che trova un break centrale dal forte sapore folklorico che ha un che dei primi Einherjer. Con "Bergtatt" non si cambia granchè registro, lasciando sempre ampio spazio all'irruenza delle ritmiche e all'effetto old school delle tastiere; l'unica cosa su cui sarebbe da soffermarsi è l'efficace lirismo del chorus che si va ad inserire nel pomposo sound dei nostri. La quinta song vede invece i Kvalvaag coverizzare più che egregiamente, i Gehenna e la loro “Vinterriket”, estratta da 'Seen Through The Veils Of Darkness', in un esperimento già visto fare in passato dalla band quando ripropose Mysticum e Troll. Se la breve title track sembra provenire da una B-side di 'Kveldssanger' degli Ulver, vista la sua veste acustic folk, in chiusura, la band si affida ancora a suoni dirompenti, quelli di “I Dyrets Tegn”, feroce e old school, ancor malefica nei suoi tratti oscuri che avvolgono e stritolano l'ascoltatore nelle sue spire del male, in quella che forse risulterà essere la mia song preferita di questo 'Seid', lavoro onesto, ma che nulla di nuovo aggiunge alla scena. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 65

https://dusktone.bandcamp.com/album/seid

martedì 22 gennaio 2019

Taur-Im-Duinath - Del Flusso Eterno

#PER CHI AMA: Black, Umbra Noctis
Se Cristo si è fermato ad Eboli, proprio da qui parte la proposta dei Taur-Im-Duinath (che in lingua "tolkeniana" sta per foresta fra i fiumi), one-man-band di F., già membro dei Pàrodos e live session degli Scuorn. 'Del Flusso Eterno' è il full length d'esordio del musicista campano che affronta in queste otto tracce, il tema del viaggio spirituale, teso ad abbracciare la circolarità dell'Universo e le sue forze di creazione e distruzione. Temi filosofici interessanti che si accompagnano a quelli altrettanto delicati della condizione umana, sorretti da un sound votato ad un black metal epico e feroce, il tutto rigorosamente cantato in italiano. Scelta azzeccata, un po' controcorrente rispetto ad un monicker che si rifà invece alla tradizione elfa, ma niente da obbiettare sia chiaro, solo un pensiero ad alta voce il mio. Si parte con la classica sognante intro e poi spazio a "Rinascita" e ad un black secco ed essenziale, forte nell'epicità delle sue chitarre, un po' meno nel minimalismo artificioso della drum machine. Ottime le vocals, graffianti, e sempre intellegibili, che ci permettono di seguire le liriche del factotum italico. "Cosi Parlò il Tuono" irrompe selvaggia, con un sound che potrebbe ammiccare ai Windir per epicità, ma anche agli Emperor e ai nostrani Umbra Noctis, sebbene non manchino momenti più doom oriented, soprattutto nella parte conclusiva del brano che segue peraltro uno splendido assolo dal forte sapore rock che attenua una ritmica incessante, di nero sentore post-black. La title track è una traccia più classica, legata a schemi canonici e derivativi dalla fiamma nera: chitarre zanzarose, il classico screaming, buone melodie mid-tempo e apparentemente poc'altro. La song cattura l'attenzione infatti per un malinconico break centrale di chitarra acustica e delle voci sussurrate, e per una conclusione finalmente accattivante. Un mini break di quasi due minuti per prendere fiato e ripartire dalla primordiale "Il Mare dello Spirito", una song che miscela il black ad una sempre più sentita vena malinconica. Un intro di un minuto e mezzo prepara "Ceneri e Promesse", song dal piglio solenne, strisciante nel suo incedere, quasi al limite dello sludge, che sembra prendere le distanze dalle altre song del lotto. Insomma, gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, sebbene un certo ancoraggio a sonorità del passato un po' troppo abusate e a certe leggerezze a livello di produzione. Peccato poi per un outro francamente inutile, avrei optato per qualcosa più in linea con la proposta della band. Considerato lo status di debutto, 'Del Flusso Eterno' è comunque una release positiva, per cui auspico una maggior cura nei dettagli nei lavori a venire. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 dicembre 2018

Opera IX - The Gospel

#PER CHI AMA: Esoteric Black Metal
Quando penso al black metal in Italia, mi vengono in mente tre band: Mortuary Drape, Necromass e Opera IX. Oggi siamo a celebrare l'agognato come back discografico di questi ultimi, che per rilasciare un nuovo album, ci impiegano da sempre, un bel po' di tempo. Avevamo aspettato otto anni dal poco ispirato 'Anphisbena' a 'Strix - Maledictae in Aeternum'; questo giro, ci accontentiamo di soli sei anni per dare il benvenuto a 'The Gospel'. Per chi si fosse distratto nel frattempo, sappiate che dietro al microfono di questo disco non c'è più Abigail Dianaria, che bene aveva fatto nel corso della sua militanza nell'ensemble piemontese. È approdata infatti negli Opera IX, Dipsas Dianaria, all'anagrafe Serena Mastracco, cantante romana (peraltro di molteplici formazioni black), di indubbio talento. E allora diamo un ascolto a come si è evoluto il sound dei nostri in questo lungo lasso di tempo. Le danze si aprono con la title track che mi riporta in un qualche modo agli esordi della band, complici quelle atmosfere orrorifiche che popolavano i miei incubi notturni ai tempi di 'The Call of the Wood' o 'Sacro Culto'. L'impatto non è affatto male, soprattutto perchè quella primigenia aura sinistra della band, pervade l'intero brano, mentre la voce maligna di Dipsas Dianaria, accompagna quelle esoteriche orchestrazioni che caratterizzeranno tutto il lavoro. Il clima si fa più tetro nella successiva "Chapter II", con un sound che ammicca alle vecchie composizioni dei nostri ai tempi di 'The Black Opera', e un riffing qui più nervoso e meno melodico rispetto al passato, che in taluni passaggi sfiora addirittura il post black nel suo infernale avanzare, e che arriva a toccare anche le partiture gotiche tanto care ai Cradle of Filth. Non mi dispiace affato, anche se per forza di cose, suona come già sentito. Peccato poi che la feroce cantante non riesca ad offrire, almeno fino a questo momento, variazioni alla sua voce, come era invece solita fare l'ineccepibile Cadaveria. Certo non si vive solo di passato, però francamente il pulito della storica cantante, aiutava non poco a caratterizzare il sound di Ossian e compagni. Ora ci troviamo di fronte ad un sound arrembante, estremo, con meno sbavature rispetto al passato e che dà maggior risalto alla porzione sinfonico-vampiresca con "Chapter III", dove finalmente emerge la peculiarità della vocalist, con una preziosa prova in pulito che rende qui la proposta degli Opera IX decisamente più ammaliante e magica, e dando contestualmente più ampio spazio ad ambientazioni mistiche ed arcane. La sacerdotessa alterna uno screaming ferale ad un cantato quasi cerimoniale, mentre le ritmiche si confermano tesissime, quasi un black primordiale, la cui irruenza viene stemperata dalle sempre invasive keyboards. "Moon Goddess" è la riprova che certifica l'adeguatezza vocale della neo arrivata all'interno della band: la musica si muove su linee di black sinfonico che mantengono comunque inalterate le linee serrate di chitarra, che molto spesso sembrano virare verso lidi death metal. Un assolo a metà brano aumenta il mio interesse per la release che ora suona anche più varia. Più lenta e poco originale "House of the Wind", una traccia anonima di cui avrei fatto volentieri a meno. Ben più interessante invece "The Invocation" e le sue tastierone in apertura, sparate a mille all'ora nel roboante impianto ritmico dei nostri, che vanno lentamente ritraendosi per lasciar posto ad un approccio ritmico dal sapore quasi militaresco. "Queen of the Serpents" è un inno dedicatao alla dea Diana che nel suo fosco e disarmonico incedere black doom, si lascia ricordare più che altro per il il chorus in italiano, e per l'utilizzo di strumenti ad arco, a cui avrei dato francamente più spazio, un esperimento alla fine mezzo riuscito. Arriviamo agli ultimi due episodi del disco, "Cimaruta" e "Sacrilego". La prima apre con i bisbigli della vocalist che torna ad incantarmi col suo cantato pulito, e ad una ritmica che si muove sui binari di un black death melodico ed orchestrale. La seconda è l'ultima tirata black di questo 'The Gospel', un rito negromantico, un incantesimo, un inno funerario (che chiama in causa anche il buon Chopìn) che sancisce il ritorno di una grande band sulle scene, da cui però è sempre lecito aspettarsi molto di più. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 75

https://dusktone.bandcamp.com/album/the-gospel

domenica 21 gennaio 2018

Omega - Eve

#PER CHI AMA: Black Siderale, Darkspace
Ci hanno impegato quasi cinque anni gli Omega a far uscire la loro prima fatica, tuttavia mi domando che bisogno ci fosse che tre dei quattro membri dei Deadly Carnage rilasciassero questo lavoro sotto mentite spoglie? Non poteva essere un nuovo lavoro dei Deadly Carnage stessi o forse gli Omega nascono in realtà come un progetto di Mike Crinella degli Ashes of Chaos? Mah, troppo mistero avvolge questa band e il concept del disco che trae ispirazione dal codice illustrato Voynich, scritto con un sistema alfabetico/linguistico ad oggi non ancora decifrato e le cui immagini incluse (piante per lo più) non sono ascrivibili ad alcun vegetale attualmente noto. Creato questo alone di mistero e suggestione (anche a livello grafico sia nella cover che nel booklet interno), ci mettiamo all'ascolto delle quattro infinite tracce che compongono 'Eve'. Da "Arboreis" a "Laudanum", il black proposto dagli Omega si pone con un sound estremo, dilatato e siderale, che nella sua progressione, avrà modo di lasciarsi contaminare anche da doom, ambient e death metal. Se devo dare qualche punto di riferimento da accostare ai nostri, direi in prima battuta gli svizzeri Darkspace, soprattutto per l'utilizzo di quelle atmosfere rarefatte e le screaming vocals effettate in background. Tuttavia il riffing, talvolta troppo ridondante, è palesemente di matrice death e questo potrebbe fuorviare l'idea che vi state facendo del disco. "Sidera" soffia come il vento glaciale dell'Artico, anzi la vedrei bene come colonna sonora per la serie TV 'Fortitude', ambientata nelle fredde e oscure terre delle isole Svalbard, e quell'aurea di mistero che avvolge la song, bene si adatterebbe al tema lugubre della fortunata serie TV inglese, complice anche una produzione non proprio cristallina. Il disco però soffre e si avverte forte quel senso d'inquietudine che trasmette e la voglia di andare oltre alla terza "Mater". Quello che avverto in apertura qui è una certa sensazione di ultraterreno, accentuata dal suono delle campane, dal battito del cuore e dal respiro affannoso di una donna improvvisamente interrotto. Il sound prosegue in maniera ancor più funerea, con un break centrale creato da delle campane che sembrano suonare a lutto. Quest'interruzione funeral gioca sicuramente a favore della traccia, rendendola più varia, atmosferica e pertanto più fruibile all'ascolto rispetto alle prime due, soprattutto perchè il brano procede successivamente con un approccio più melodico e dinamico che rende meno stancante l'ascolto di un lavoro che sottolineo essere estremamente ostico. Soprattutto quando ad aspettarmi ci sono ancora gli oltre 16 minuti di "Laudanum" e le terribili grida che aprono la traccia in un'atmosfera da film horror. La song in realtà divampa in un assalto black/death apocalittico, con le solite ritmiche spigolose, i break doom e le urla aliene che caratterizzano in generale 'Eve'. Insomma un disco complesso, arcigno, complicato, un lavoro non per tutti ma solo per pochi adepti devoti. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

https://dusktone.bandcamp.com/album/eve

giovedì 16 marzo 2017

Scuorn - Parthenope

#PER CHI AMA: Black Symph/Folk, Inchiuvatu, Fleshgod Apocalypse, Rotting Christ
Vergogna. No, non vi sto invitando a provare quel senso di inadeguatezza che deriva dall'avvertire simile emozione, vergogna è semplicemente la traduzione in italiano di "scuorn", parola che arriva dal gergo napoletano e che da oggi non scorderò mai più, in quanto Scuorn è anche il moniker di una band proveniente proprio da Napoli, che dopo parecchie vicissitudini, arriva finalmente al debutto, con un album che definirsi bomba, potrebbe rivelarsi riduttivo. 'Parthenope' è il titolo del cd in questione, uscito per la Dusktone Records da poche settimane. Un album che francamente mi ha stupito per i contenuti, la cura dei particolari, l'inventiva, e mille altri motivi. Partendo da un'impostazione black metal, ci immergiamo in un lavoro che saprà spaziare dal death sinfonico al folk mediterraneo, passando attraverso l'epic, l'ambient, il progressive, l'etnico e diverse altre sfaccettature, che rendono già in partenza "Fra Ciel' e Terra" una traccia semplicemente meravigliosa, che si muove tra sfuriate black, pompose orchestrazioni in stile Fleshgod Apocalypse, spezzoni tribali, il tutto cantato rigorosamente in napoletano. Si avete letto bene: Giulian, il factotum mente della band, utilizza il dialetto della propria terra per accompagnarci in questo viaggio unico nella musica estrema campana. E la opening track (escludendo l'intro) entusiasma per le sue melodie, i suoi cambi di tempo, l'utilizzo degli strumenti tipici del folklore partenopeo, le vocals growl e quelle recitate in italiano e in latino, le frustate chitarristiche, i blast beat, le magniloquenti tastiere, quegli echi alla Inchiuvatu che si mischiano con il sound colto degli In Tormentata Quiete, il tutto trainato da un sound sinfonico alla Emperor. "Virgilio Mago" attacca di seguito con una chitarra che richiama suoni della tradizione campana, prima di lanciarsi in vorticosi giri ritmici ed aperture atmosferiche di scuola Dimmu Borgir/Old Man's Child, break di chitarra da brividi che esaltano le qualità del mastermind italico, epiche melodie classicheggianti, ed un drumming finale roboante che ammicca al sound ellenico dei Rotting Christ dell'ultimo periodo. Lo sottolineo nuovamente, è musica esaltante quella degli Scuorn. Il vortice sonoro prosegue con "Tarantella Nera" e il suo ritmo spezzettato da quei cori in napoletano, che mi spingono anche a concentrarmi sui testi che ci raccontano leggende del periodo greco e romano di Napoli. La musica spinge con tutta l'enfasi possibile, non stancando mai, anzi continuando ad esaltare per le trovate che costantemente emergono dalle tracce di quest'incredibile disco, che si candida già oggi, ad essere nella mia personale top ten di fine anno, se non addirittura sul primo gradino del podio. Si picchia, non temete: con "Sangue Amaro", i colpi inferti alla batteria, i riffoni di chitarra, le vocals maligne sono un esempio di come rendere una traccia selvaggia, pur stemperata successivamente da parti folkloriche più raffinate che si prendono interamente la scena poco più tardi con la magia dell'interludio "Averno", che ci piglia per mano e ci introduce a "Sibilla Cumana", la sacerdotessa di Apollo, colei che profetizzava nelle religioni classiche. La complessità dei pezzi, unita ad un innato gusto per le melodie e ad una produzione spettacolare, avvenuta ai 16th Cellar Studio di Stefano “Saul” Morabito, riescono a rendere interessanti anche quelle tracce che magari hanno un po' meno da dire, come poteva essere questo racconto sulla somma sacerdotessa, ma che in verità, si dimostra un pezzo parecchio interessante. Con calma si arriva a "Sepeithos", il nome greco del fiume che bagnava l'antica Neapolis, il cui significato è "andar con impeto", quello stesso impeto che contraddistingue l'ottava traccia di quest'intenso lavoro, che vede peraltro nelle sue diverse edizioni - che includono un disco bonus orchestrale - una serie di guest star prestar le proprie voci nella narrazione di questo gioiello musicale. Inclusi nel disco troviamo infatti tra gli altri, Tina Gagliotta dei Poemisia, Diego Laino degli Ade, Wolf dei Gort e Riccardo Struder degli Stormlord alle orchestrazioni. Nel frattempo siamo giunti alla lunga title track, pezzo clou dell'intero lavoro, in cui mi preme soffermarmi sul break centrale, in cui dialoghi in dialetto napoletano narrano le gesta di Ulisse incatenato legato all'albero maestro della nave a sfidare il canto delle sirene. Le atmosfere in sottofondo sottolineano l'epica drammaticità di questo momento, e di un disco carico di emozioni di ogni tipo, che lo rendono davvero unico ed imperdibile. (Francesco Scarci)

sabato 25 febbraio 2017

Acrosome - Narrator and Remains

#PER CHI AMA: Black Progressive, Arcturus, Mesarthim, Darkspace
Li avevo recensiti sul finire nel 2014 in occasione del loro come back discografico 'Non-pourable Lines', sottolineando una buona capacità nell'alternare tormenti post black con inframezzi al limite del lounge. Ritornano in sella i turchi Acrosome (ma dovrei dire il polistrumentista turco DA, trattandosi di una one man band) con un album nuovo di zecca, fuori sempre per la nostrana Dusktone Records, che ha da offrire sette tempestose tracce, che si muovono stilisticamente tra un coriaceo black metal (vi basti ascoltare l'intenso incipit di "First Step on to the World"), e rasserenanti (ma altrettanto inquieti) momenti d'atmosfera. Dicevamo dell'opening track, quasi nove minuti costituiti da irrefrenabili cavalcate black (almeno per i primi 240 secondi) su cui si stagliano i vocalizzi recitanti del frontman, che lasciano poi il posto a più meditativi e metafisici attimi d'atmosfera in grado di regalare spunti di elevatissimo interesse musicale. Diciamo subito che il fatto di non avere solo screaming vocals aiuta non poco per ottenere un risultato più che soddisfacente, cosi come pure la scelta di utilizzare una variante alle classiche forsennate ritmiche post black, rafforza la posizione degli Acrosome. Un fischiettare finale in stile colonna sonora western di Ennio Morricone, contribuisce poi ad esaltare l'eccellente risultato della prima traccia. Si sprofonda invece nelle tenebre con la seguente "Crossbreed Rising", song dal taglio più black doom oriented e pertanto più standard nel suo effetto finale. Con "Cognitive Contact" emergono forti epici richiami vocali agli Arcturus, il tutto però disposto su di un tappeto ritmico più efferato, anche se nel giro di poco meno di un minuto, la musica cambia, si fa più malinconica (grazie al tremolo picking), sofferente, anche se cederà almeno un altro paio di volte a violente scariche black. La registrazione avvolgente fa il resto e mi proietta verso sonorità cosmiche, che chiamano in causa Darkspace o qualcosa dei più recenti Mesarthim, cosa che si renderà ancor più evidente in "Accomodate". Nel frattempo si scorre attraverso la breve strumentale "Sight" e ad un secondo pezzo strumentale, "In the Wake of Foot Traces", tiratissima song di poco più di quattro minuti, fatta di vorticose accelerate in stile Dissection e spettrali strali ambient. Citavamo poc'anzi "Accomodate", un brano diverso dagli altri, vuoi per quell'ipnotico elettro-beat iniziale ma anche per un'andatura più controllata rispetto alle tracce precedenti, che la rendono semplicemente meno estrema e più rock e che potrebbe indicare una nuova direzione per DA e i suoi Acrosome. La traccia comunque non si lascia sfuggire l'occasione di abbandonarsi in un'altra travolgente sgroppata in territori black, ma ancora una volta, il tutto viene suonato con classe cristallina che ergono 'Narrator and Remains' ad elevati livelli di maturità artistica. Ben fatto DA! (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 80

sabato 11 febbraio 2017

Cold Body Radiation - The Orphean Lyre

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk, An Autumn for Crippled Children
Al quarto tentativo mi imbatto finalmente nei Cold Body Radiation, one man band olandese affacciatasi nel mondo metal nel 2010 con una proposta blackgaze davvero convincente, che nel corso degli anni si è evoluta, proponendo oggi un sound più etereo e vellutato. Ecco quindi 'The Orphean Lyre', fuori per la nostrana Dusktone Records, un lavoro che include otto tracce che di quel sound originario non conserva ahimè più nulla. Il cambio di rotta era già palese nel precedente 'A Clear Path' e trova consolidamento in questo nuovo album, che può essere accostabile per molti versi alla direzione intrapresa da un'altra band dei Paesi Bassi, gli An Autumn for Crippled Children, ossia un post punk shoegaze (lasciate però perdere gli Alcest), venato di forti influenze che ci riportano alla darkwave. M, il mastermind che sta dietro ai Cold Body Radiation, si abbandona a sonorità estremamente malinconiche, dimenticandosi completamente dei suoi albori black. Con "The Ghost Of My Things" ci si tuffa nell'infinito universo dello shoegaze più intimistico ed onirico, più vicino al dream pop, con tanto di voci melodiche e sognanti, e linee di chitarra poste in secondo piano rispetto ai più preponderanti synth. Solo qualche rara galoppata in stile punk, rappresentano l'unico vero punto di contatto con un passato ormai scivolato nell'oblio, perché anche con "All The Little Things You Forget Are Stored In Heaven" e le rimanenti tracce, fino all'ultima e più convincente "The Forever Sun", si procede nell'esplorare morbide atmosfere ambient, che hanno se non altro il merito di concederci momenti di relax e meditazione. Difficile consigliare questo disco ai fan di vecchia data della band olandese, ma se siete stati in grado già di assorbire il colpo con 'A Clear Path', anche 'The Orphean Lyre' potrebbe meritare la vostra attenzione. Chi invece si avvicina per la prima volta al musicista olandese, ed è in cerca di una qualche esperienza sensoriale, si lasci pure avvolgere dal sound stratificato dei Cold Body Radiation, potrebbe risultare quasi piacevole. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

domenica 13 marzo 2016

Ego Depths - Dýrtangle

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ascoltare ma soprattutto recensire 'Dýrtangle' (la cui origine si rifà alla cultura nordica che da quella buddista tibetana con il significato approssimativo di 'abbraccio rude della bestia') è un po' come scalare un K2 o un Everest, una proba impresa riservata solo a poche, pochissime persone. Ottanta minuti di suoni incuneati fondamentalmente in cinque infinite tracce (di cui la prima è un intro e la terza un intermezzo acustico) partorite dalla mente malata di Stigmatheist, il musicista ucraino che si cela dietro a questo moniker. "Wheel of Transmigration" è la prima vetta su cui inerpicarsi nella speranza di sopravvivere prima di raggiungerne la cima e da lì provare a scorgere (inutilmente) la luce all'orizzonte, e da lì salire ancor di più. Diciannove minuti di suoni che definire claustrofobici sembra quasi un eufemismo: la lentezza disarmante con cui si muove il sound ha un che di spaventoso, inasprito peraltro dai vocalizzi del frontman che spaziano tra il growling e il sussurrato, attraverso lugubri e tetri paesaggi di apocalittico funeral. Una pausa, l'etnica "The Onward Tide", giusto per prendere fiato e ricominciare l'ascesa che sembra divenire ancor più aspra con i 23 minuti abbondanti di "Awakening of Gshin-Rje, the Lord of Death". L'inizio della song ha degli ovvi richiami alla cultura orientale con quelle melodie meditative che potreste sentire in uno dei tempi collocati sulle pendici dell'Himalaya, dove a regnare c'è solo il suono del silenzio. Verso il sesto minuto, il brano sprofonda nelle viscere della terra con le sue roboanti e catacombali chitarre, con l'unica parvenza di cantato racchiusa in gorgoglii in sottofondo e dove la musica si muove ipnotica e catartica nella sua epifania spirituale, tra suoni di campane e mistiche melodie. Nella seconda metà, il brano trova addirittura modo di esplodere la propria furia inespressa in una violentissima parte di black al limite del cacofonico. Non è facile ve l'avevo detto, qualcuno si sarà già arreso o presto lo farà, soprattutto al cospetto di "Vitrification, Ineludible Meditation", una song immonda di quasi trenta minuti, in cui ancora a fondersi ci sono i delicati suoni provenienti da strumenti della cultura orientale (l'arpa, il flauto duduk e il tamburo damaru) con le intemperanze di un diabolico funeral doom, che vi condurranno in un viaggio suggestivo quanto mai impervio ai più. Sicuramente affascinanti, ma di sicuro gli Ego Depths resteranno inaccessibili proprio come le vette del K2 o dell'Everest. (Francesco Scarci)

(Dusktone - 2015)
Voto: 65 

giovedì 3 marzo 2016

Phobonoid - S/t

#PER CHI AMA: Experimental Black, Blut Aus Nord, Darkspace
Esattamente due anni fa scrissi dell'EP di debutto della one man band trentina, 'Orbita', un concept album che riguardava la fine della civiltà su Marte. Ora Phobos torna con il suo full length d'esordio che, stando ai titoli, continua ad affrontare tematiche spaziali con suoni, che come un'onda gravitazionale, si propagano minacciosi nello spazio profondo. Dodici i capitoli a disposizione del musicista italico, tra cui tre tracce strumentali. "Fiamme distanti si accavallano nella nube del tempo, la polvere soffia attraverso la luce riflessa, trema lo spazio invaso dalla paura del passato, si muovono le forme colpite dal passo di crono": cosi apre il disco con i toni apprensivi di "Crono". Segue "Alpha Centauri" e come potete intuire, i riferimenti intergalattici non si sprecano. Da un punto di vista musicale poi, la proposta dei Phobonoid si muove su sonorità black sperimentali, chiamando in causa per qualche affinità mal celata, Darkspace e Blut Aus Nord, come già avevo avuto modo di evidenziare nel precedente lavoro. Anche qualche punto di contatto con i Progenie Terrestre Pura sarà riscontrabile nell'arco degli oltre 40 minuti del disco, ma non solo. "La Sonda di Phobos" ha infatti da offrire suoni glaciali che ammiccano al doom più desolante, mentre "Fuga nel Vuoto" crea un forte senso di disagio per quell'aura iniziale che poteva fare tranquillamente da colonna sonora a 'Gravity', nel momento in cui la tempesta di asteroidi si abbatte sulla navetta spaziale dei protagonisti. L'effetto infatti è il medesimo, con quel senso di angoscia legato alla catastrofe incombente. "Eris" (cosi come pure la title track conclusiva) è una traccia di black mid-tempo dai toni marziali che annichilisce esclusivamente per la fredda asetticità che emana. Si sprofonda nuovamente negli abissi della rarefazione galattica con il flemmatico incedere de "La Risonanza della Sonda", in cui la demoniaca voce del frontman è quanto di più vicino al genere umano che questo disco ha da offrire. Se in "Kairos" c'è un tocco di velata malinconia nelle sue melodie, è forse con "Frammenti di Luce" che il cd tocca il suo apice artistico, un pezzo che miscela egregiamente il black cibernetico e avanguardistico con lo sconforto del doom più oscuro. "Tachyon", la terza song strumentale, è invece quanto di più si avvicini a sonorità aliene, con suoni distorti, sghembi e disarmonici che per certi versi si spingono in territori quasi trip hop, quello dei Massive Attack più tenebrosi. Il mio viaggio l'ho compiuto e voi vi sentite pronti per un altro viaggio interplanetario in compagnia dei Phobonoid? (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2015)
Voto: 70

domenica 14 febbraio 2016

Svartelder - Askebundet

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal, Ancient
Nostalgia nei confronti del black metal norvegese? Ho la soluzione che fa per voi. Vi presento i norvegesi Svartelder, band formatasi nel lontano 2005 per mano di Doedsadmiral (Nordjevel, Doedsvangr) e nelle cui fila militano anche AK-47 e Cobold, due loschi individui che hanno fatto parte o sono ancora membri, tra gli altri, di In the Woods, Carpathian Forest, Blood Red Throne, Ewigkeit e Den Saakaldte. Questo per dire che questo quartetto di Indre Arna, non è certo l'ultimo arrivato. E la nostrana Dusktone Records ci ha visto lungo, mettendoli sotto contratto e facendoli esordire con il loro EP 'Askebundet'. Quattro canzoni, 30 minuti di durata, fatto di suoni black mid-tempo rancidi, malefici e sinistri. La matrice ritmica è quella tipica norvegese: chitarre ronzanti, melodie orecchiabili, qualche tocco di synth in stile Burzum, fin dalla lunga title track che apre le danze. La voce di Doedsadmiral poi è in linea con le produzioni norvegesi, la associerei a quelle di Immortal e Ancient per timbrica e abrasività. I 10 minuti di "Askebundet" scorrono via piacevoli, tra qualche frangente che puzza di già sentito e qualche apertura più varia. Più interessante invece, la seconda "Bleeding Wounds", forse meno monolitica della opening track, e con qualche soluzione strumentale più fresca e ariosa, anche se mi rendo conto che questi due aggettivi potrebbero far storcere il naso ai puristi del genere, però voi dateci un ascolto e potrete anche riscoprire un che dei Satyricon degli esordi o un pizzico di epicità dei Bathory. "Ingen Vet Jeg Var...", la terza song, è più potente grazie a suoni più profondi e a un uso ancor più incisivo delle keys, sebbene il flusso sonico mantenga comunque l'intransigente glacialità degna del black. Incredibile la presenza di un melodico assolo nella sua seconda metà, laddove il sound dei nostri sembra richiamare anche quello dei conterranei God Seed. L'ultima traccia del dischetto è una versione demo di "Black He Stands", un brano che sinceramente non so da dove salti fuori, ma che comunque mostra l'intenzionalità da parte di Doedsadmiral e compagni di abbinare black old school con inquietanti tastiere e qualche sperimentazione anomala per il genere. Per ora accontentiamoci di 'Askebundet', un lavoro sicuramente gradevole, ma che non aggiunge grandi novità al verbo nero. Sia chiaro pertanto che dal futuro mi aspetto qualcosa di ben più convincente. (Francesco Scarci)

sabato 6 febbraio 2016

Enisum - Arpitanian Lands

#PER CHI AMA: Shoegaze/Black Atmosferico
Poco meno di un anno fa, il Pozzo dei Dannati descriveva il terzo lavoro dei piemontesi Enisum, 'Samoht Nara', come un miscela di cascadian black e shoegaze. A distanza di 11 mesi, spetta a me raccontarvi di 'Arpitanian Lands', quarta fatica del trio della Val di Susa. L'ingresso nella lunga title track strizza l'occhio agli Alcest e immediatamente conferma quanto descritto dal mio collega nella precedente recensione. Una voce di donna, Epheliin, apre infatti questo brillante disco con i suoi eterei vocalizzi posti su di un arpeggio dal forte sapore folk. Inizia qui il racconto delle terre dell'Arpitania, che abbracciano territori di Italia, Francia e Svizzera, tributandone l'amore della band. La musica di Lys e soci ci accompagna lungo questo viaggio di scoperta, deliziandoci con il loro peculiare black dotato di passaggi atmosferici e frangenti di oscura magia, che hanno il ruolo di esaltare un suono già di per sè assai convincente. "Alpine Peaks" offre la visione estrema delle Alpi che dominano un paesaggio per certi versi estremo, conducendoci per mano sulla cima di quel gigante, creando quel senso di vertigine da far tremare le gambe. Poi alzi lo sguardo, ammiri l'orizzonte, l'apice delle montagne, respiri lentamente e a pieni polmoni con il cuore che rallenta i suoi battiti, e finalmente assapori la bellezza dello scenario che si dipana di fronte agli occhi. La canzone si muove contestualmente, tra arrembanti cavalcate black e frangenti più rallentati che ci danno modo di guardarci attorno e godere. Ma è con "Chiusella's Waters" che i nostri riescono finalmente a fare breccia nella mia anima e inebriarmi con le loro ataviche melodie che narrano del torrente omonimo che scorre in quelle terre e il cui fragore è richiamato da una certa effettistica inserita nel brano, che si muove tra epiche cavalcate e il dischiudersi di splendide melodie. "Mountain's Spirit" si fa notare per la profondità del drumming e comunque, come per le precedenti song, si muove nell'alternanza tra sciabolate black (con tanto di blast beat) e rallentamenti mid-tempo. Le frustrate estreme continuano ancor più violente nella successiva "Rociamlon" (in dialetto piemontese indica il Rocciamelone che è una montagna delle Alpi Graie), anche se qui, le brusche frenate perpetrate dalla band, rischiano quasi di sconfinare nel doom. La voce al vetriolo di Lys si conferma poi come una delle migliori del panorama estremo italico. Un altro arpeggio ed è il momento di "Fauna's Souls", una song permeata di una malinconica aura ancestrale che s'incontra e compenetra con l'irruenza del black degli Enisum, soprattutto a livello del folkloristico break centrale. "The Place Where You Died" include altri otto minuti di estremismi mid-tempo, decadenti melodie inneggiate dallo screaming lacerante di Lys, in una traccia che reputo la più matura e varia del cd. La riflessiva "Desperate Souls" e infine l'incalzante "Sunsets on My Path" (ove i gorgheggi di Epheliin tornano a palesarsi) completano un disco che conferma l'equilibrata evoluzione abbracciata dagli Enisum e paventano la possibilità di aprire a nuovi paesaggi compositivi. (Francesco Scarci)