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giovedì 21 giugno 2012

Bretus - In Onirica

#PER CHI AMA: Doom Metal, Pagan Altar, Cathedral, Reverend Bizarre
Da Catanzaro giungono degli ululati nella notte. E dicono chiaramente "E' finalmente arrivato l‘album dei Bretus, 'In Onirica'!", quindi prendetene ed ascoltatene tutti, miei cari seguaci del metallo oscuro. L'ingannevole packaging d'ispirazione naturalista e in font celtici, devo dire che mi ha spiazzato subito, in quanto mi aspettavo di trovarmi davanti un mutamento di sound vicino ai Mael Mordha. Non preoccupatevi, i rilievi psichedelici sono rimasti, ma c'è comunque un'inafferabile atmosfera uggiosa di boschi, verdi campagne incontaminate e druidi che si passano spinelli. Tutti elementi che richiamano anche una grande band del passato, i Pagan Altar. Difatti i Bretus non si discostano molto dal primo doom metal, e riescono a renderlo più personale, più tagliente e più pesante. Le composizioni vanno oltre all'apparente riffone colmo di droga e spessosità. Radicati all'interno delle strutture possiamo incontrare splendidi assoli anni '70, arpeggi delicati, un basso che sa gestirsi bene nel non risultare scontato, e delle tastiere responsabili dell'ambiente etereo che circonda tutta questa pubblicazione. Coglie subito la mia attenzione la voce, esattemente quella che chiunque voglia ascoltare del buon doom classico cerca. Le tracce sono varie e frutto di una grande creatività, addirittura “Leaves of Grass” mi ricorda molto le sonorità di “Led Zeppelin III” mentre accosto la chitarra di “Down in the Hollow” a “Utopian Blaster” dei Cathedral. Ma il quartetto calabro non si ferma qui, e in chiusura passano ad uno scenario più colorato e psichedelico, chiudendo con “The Black Sleep”, 8 minuti di delirio che richiama gruppi precursori del doom come i Black Widow. La produzione tende ad oscurare i suoni ed a tagliare le tonalità, ma questo contribuisce a creare l'atmosfera cupa ideale per questo disco. Un debut eccellente, per tutti gli amanti del doom classico, caratterizzato da una vena psichedelica. (Kent)

(Arx Productions)
Voto: 80 
 

lunedì 2 aprile 2012

Landforge - Servitude to Earth

#PER CHI AMA: Sludge, Post Rock, Doom
Landforge è il progetto solista di una mente alquanto malsana (musicalmente parlando) che risponde al nome di Stephan Carter. “Servitude to Earth” è il secondo lavoro, prodotto dalla Arx Productions ed è composto da sei tracce dalla consueta lunga durata, visto il genere. E di genere parliamone, perché Landforge parte da una background post rock con influenze doom e sfumature metal, con totale assenza di cantato. Per quanto riguarda questo genere e l'album in questione, la chitarra sostituisce la linea melodica generalmente gestita alla voce, lavorando molto sui riff, sui cambi di ritmica e sui suoni. Diciamo che la parte compositiva rientra nella media, la struttura dei pezzi varia costantemente per dare una certa emotività, ma non eccelle, come spesso accade, per fantasia e innovazione. Nota dolente sono i suoni legati alla chitarra. Non voglio certo penalizzare un prodotto totalmente a carico del musicista, ma le distorsione sembrano sempre un po’ povere e fredde. Questo problema si può ovviare con accorgimenti che non impattano sul budget, quindi lascio un punto interrogativo. Giusto per partire dal fondo, cito subito "Phalanx", traccia che chiude il cd, ma che mi ha emozionato maggiormente. Infatti i riff sono più pesanti e la rimica lenta (dio salvi il doom), questo crea un "mood" drammatico a momenti, epico in altri. Ottimo pezzo, ben bilanciato e arrangiato. Risaliamo nella track list e arriviamo a "God-figure", ottima intro graffiante e visionaria, sempre con una ritmica doom e seconde chitarre che tessono una trama evocativa e visionaria. Ci sono i soliti stacchi lenti e puliti, come non prevederli? Bravo Mr. Landforge, ma prova a cogliere una provocazione: se in un contesto "post qualcosa" la chitarra solista venisse supportata da dei synth e affini, avremo forse un'evoluzione del genere? Ai posteri l'ardua sentenza. (Michele Montanari)

(Arx Productions)
Voto: 70

domenica 11 marzo 2012

Frailty - Melpomene

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema e ultimi My Dying Bride
La band lettone dei Frailty fa parte dei nostri fedelissimi compagni d’avventura del Pozzo dei Dannati. Abbiamo recensito il primo cd, l’Ep omonimo, ed ora è la volta di “Melpomene”, che contiene le tracce mai ufficialmente pubblicate di “Silence is Everything”, Ep del 2010, oltre a cinque nuove song. Mi arriva direttamente dall’etichetta ucraina, Arx Productions, questo secondo lavoro e devo ammettere che all’ascolto della prima traccia mi ha istantaneamente disorientato; dove diavolo è finito infatti, il death doom atmosferico dei nostri? Mi è subito venuto in mente il cambio stilistico che i My Dying Bride fecero ai tempi di “The Dreadful Hours”, dove ampio spazio fu lasciato anche a feroci galoppate in territori black metal. Se non fosse per l’intermezzo acustico, posto a metà di “Wendigo”, penserei che il sestetto baltico possa aver cambiato decisamente genere, inasprendo di molto il proprio sound. Ci pensa però la successiva “Cold Sky” a ripristinare il tutto e a restituirmi la band che ho apprezzato più che altro, per l’incedere doomeggiante e pregno di vibrazioni malinconiche. Come scrissi per il precedente Ep, la musica dei nostri è in grado di solleticare il mio palato e i miei sensi, per quella sua innata capacità di riportarmi ai fasti del genere con l’esordio degli Anathema, quelli più oscuri e decadenti e i nostri ci riescono nuovamente con questa nuova release. La musica dei Frailty non è cambiata poi di molto e la terza traccia, seppur datata ormai 2010, ci ammorba con 14 minuti di lenti e pesanti riff di chitarra, accompagnati come sempre dai delicati e immancabili tocchi di pianoforte e dai vocalizzi animaleschi di Martins. “Underwater” è un bell’esempio di death doom ritmato, in cui trovano posto pletorici riffoni di chitarra, carichi di quell’eleganza mista a disperazione, che rappresentano un po’ il marchio di fabbrica dell’ensemble della piccola repubblica baltica. “Onegin’s Death” è un arpeggiato pezzo strumentale, in cui fa la sua comparsa anche lo spettrale suono di un violino nel bel mezzo di un temporale; la traccia fa da preludio ai quasi quindici minuti di “The Doomed Halls of Damnation”, che ci fanno sprofondare nuovamente in un minaccioso e tetro funeral doom, foriero di dolore, sofferenza e morte, soprattutto quando il sound rallenta paurosamente in versione super slow motion. Il nodo strozzatosi in mezzo al petto, viene subito spazzato via da “The Eternal Emerald”, song decisamente più andante, che vede anche le clean vocals di Edmunds, avvicendarsi a quelle di Martins e mostrare come le nuove composizioni siano decisamente meno claustrofobiche della precedente produzione targata Frailty. Non so se questo sia un bene o un male, dal momento che ho imparato ad apprezzare la band per quei suoni miscelanti angoscia ed eleganza, lenti, ossessivi e caratterizzati da pesanti ritmiche agonizzanti. Ecco, diciamo che li preferisco maggiormente in versione slow piuttosto che mid-tempo, anche se non posso negare che “Thundering Heights” mostri in chiusura un fantastico assolo che contraddice ogni mia parola. A chiudere ci pensa la strumentale, orientaleggiante e davvero notevole, “The Cemetary of Colossus”, che conferma quanto i Frailty si possano candidare ad essere tra gli alfieri del death doom in Europa, ma al contempo possano decisamente aprirsi ad altre sonorità più epiche e sperimentali. Da tenere accuratamente e obbligatoriamente sotto la lente di ingrandimento. (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 75
 

sabato 10 dicembre 2011

Smohalla - Resilience

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Ved Buens Ende, Arcturus, Ulver, Limbonic Art
Gli Smohalla sono una band francese che avevo già avuto modo di ascoltare e apprezzare ai tempi dell’EP di debutto “Nova Persei”. Era il 2007 e ora finalmente è uscito il full lenght e non posso che rilevare che nel corso degli ultimi quattro anni, la qualità del terzetto transalpino si è elevato, in termini qualitativi, di molto. Partendo da una copertina di indubbio riferimento esoterico-massonico, i nostri sfoderano otto brani, che non fanno altro che confermare l’assoluto valore della scena francese. Non siamo di fronte a mostri sacri come Deathspell Omega o Blut Aus Nord, ma se mi è concesso, poco ci manca, proprio perché gli Smohalla ci offrono su un piatto d’argento una musica che, pescando dal sound enigmatico di Ved Buens Ende, a cui aggiungono le orchestrazioni degli Arcturus più ispirati, e con un tocco della schizofrenia dei già citati Blut Aus Nord, il risultato ha davvero del sorprendente. Difficile identificare una song piuttosto di un’altra, in quanto tutte le canzoni qui contenute hanno un che di originale e inebriante da proporre: non esiste infatti un canovaccio ben preciso che i nostri seguono nella costruzione, totalmente disarticolata, dei loro pezzi e questo è per le mie orecchie assai buono. La musica dei nostri, partendo da lontanissimi richiami in stile Limbonic Art, innesta nel suo interno suggestioni oniriche (“Marche Silencieuse” tanto per capire), inserti elettronici, frangenti ambient, arrangiamenti da brivido, passaggi d’avanguardia che esulano in modo inequivocabile dal metal e per non farci mancare nulla, anche feroci sfuriate black metal (“L’Homme et la Brume”); il tutto è impreziosito ulteriormente dalle vocals di Slo (le liriche sono tutte in francese) che si dilettano in un doppio ruolo, screaming (stile Solefald) e cleaning (stile Ulver). Ecco, forse proprio dai Solefald, i nostri risultano più influenzati, ma non da un punto di vista stilistico, ma in termini di improvvisazione e ciò è quello che renderà gli Smohalla la vera sorpresa di questo 2011 (in coabitazione con i Solstafir), che sta per concludersi. Se il buongiorno si vede dal mattino, i nostri sono destinati ad un futuro glorioso, in compagnia dei più grandi nomi di sempre. Eccellente debutto, da avere ad ogni costo! (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 85